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  • Martedì 28 gennaio 2014

Quei begli articoli lunghi

Erano un genere in via d'estinzione, sono diventati un formato di culto (come il vinile!): con delle controindicazioni

BRIGHTON, UNITED KINGDOM - SEPTEMBER 28: A man reads the sports section of a newspaper as another yawns during a debate at the Labour Party conference on September 28, 2005 in Brighton, England. The governing Labour Party is holding it's yearly conference at the English coastal resort until 29 September, 2005. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)
BRIGHTON, UNITED KINGDOM - SEPTEMBER 28: A man reads the sports section of a newspaper as another yawns during a debate at the Labour Party conference on September 28, 2005 in Brighton, England. The governing Labour Party is holding it's yearly conference at the English coastal resort until 29 September, 2005. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Da diversi anni, in seguito alla diffusione di Internet e al progressivo crescere dell’informazione online, molti discutono delle sorti degli “articoli lunghi” tipici dei magazine (e ancora più diffusi in quelli americani) che hanno perso progressivamente spazio in favore di articoli più brevi e rapidi da leggere. Parallelamente, come in ogni declino, è rinato uno spazio di conservazione e interesse per il formato in declino: sia con siti dedicati solo a questo tipo di articoli, sia con riscoperte degli articoli lunghi da parte dei siti e giornali che li avevano emarginati. E la discussione, negli ultimi giorni, ha preso una nuova piega. Oggi che i magazine sono in crisi e potrebbero scomparire, scrive Jonathan Mahler sul New York Times, sono tornati ad avere un ruolo i pezzi lunghi tipici dei magazine, favoriti da una tendenza nata e assecondata anche su Twitter tramite hashtag come #longreads o #longform, che sembravano voler attirare l’attenzione di chi è alla ricerca di letture “sostanziali, roba per intenditori”. E siti specifici come Longreads e Longform raccolgono ogni settimana i migliori pezzi lunghi che circolano su internet, vecchie o nuove storie selezionate rispettando innanzitutto il criterio della lunghezza oltre a quello della qualità; mentre anche siti di news e di contenuti molto più immediati – come BuzzFeed e Politico – hanno iniziato a pubblicare pezzi lunghi con una certa frequenza e aperto sezioni specifiche al loro interno. È come se l’espressione “long-form”, scrive il New York Times, nobilitasse da sola il contenuto conferendogli un che di speciale e “letterario”, distinto dalla massa di informazioni volatili: e si tratta peraltro di contenuti che – con un po’ di fortuna, qualche retweet giusto e un buona diffusione sui social network – possono anche generare traffico utile ai siti che li pubblicano, contrariamente a quanto si era ritenuto finora.

Ma nuove riflessioni sull’inflazione di simili articoli sono nate dopo il caso di un discusso articolo sul sito sportivo Grantland, che il 15 gennaio ha raccontato la storia di una mazza da golf di grande successo e della persona che l’ha inventata, Essay Anne Vanderbilt: il pezzo ha generato in breve tempo reazioni molto diverse, di grande approvazione per l’estesa e approfondita inchiesta da una parte ma anche molte polemiche dall’altra, a causa della triste fine della protagonista e del coinvolgimento dell’autore dell’articolo nella vicenda raccontata. Grantland, ospitato sulla piattaforma online della rete sportiva statunitense Espn, è un magazine online che ha guadagnato grande popolarità negli ultimi tempi: pubblica prevalentemente articoli lunghi – ritratti di sportivi celebri, analisi e approfondimenti tecnici per appassionati – e si tratta in genere di letture molto gradevoli oltre che molto lunghe (in Italia un modello simile di giornalismo sportivo di maggiore lunghezza è nato da poco e si chiama L’ultimo uomo).

Mahler, giornalista sportivo e columnist del New York Times Magazine e di Bloomberg (e prima anche per Washington Post, Slate e New Republic), parla nel suo commento del “mito dei pezzi lunghi”, che da definizione generica si è progressivamente trasformata in un discusso formato giornalistico che nel dibattito anglosassone ha preso il nome di “longform journalism”. La traduzione letterale del titolo dell’articolo di Mahler suona più o meno così: “Quando il genere lungo è il genere sbagliato”.
Riguardo alla scelta di Grantland di pubblicare il contestato pezzo su Vanderbilt, nonostante il timore che quel pezzo potesse prestarsi a critiche (come poi di fatto è avvenuto), Mahler scrive: «La decisione di Grantland di pubblicare il pezzo, così come l’entusiasmo iniziale con cui è stato accolto, è anche uno dei prodotti dell’ambiente giornalistico in cui viviamo. Nello specifico, il potere del culto dei pezzi lunghi».

Secondo Mahler, la riscoperta e il successo recente degli articoli lunghi sono in parte dovuti a un fattore nostalgico verso qualcosa che sembrava sul punto di scomparire, e anche a una certa volontà di conservare un genere particolare di narrazione molto diversa dal racconto giornalistico, più letteraria. E poi c’è una ragione meramente tecnica, scrive Mahler: malgrado la prevalenza del mobile, gli schermi ad alta risoluzione che si sono rapidamente diffusi negli ultimi anni hanno anche reso molto più agevole la lettura di articoli online rispetto a quanto lo fosse alcuni anni fa.

Mahler conclude che il problema con questa riscoperta e rinascita dei pezzi lunghi, semmai, è che spesso vengono celebrati in quanto tali, privilegiando la forma rispetto al contenuto, e nel caso specifico del pezzo di Grantland il pregiudizio favorevole verso il formato rischia di impedire una riflessione specifica e più estesa sulle responsabilità deontologiche e professionali del giornalista autore del pezzo su Vanderbilt.

In un altro articolo, pubblicato sull’Atlantic nel dicembre scorso (e intitolato “Contro i pezzi lunghi” e molto circolato online), il direttore James Bennet esprimeva – più approfonditamente e con argomentazioni più articolate – preoccupazioni simili a quelle di Mahler: il rischio che scrivere un pezzo lungo finisca per corrispondere a scrivere “un sacco di parole”, ovvero di fatto un pezzo più lungo e basta. Bennet contestava l’idea che il criterio della lunghezza possa avere una qualsiasi rilevanza nel certificare la qualità di un pezzo, come di tante altre cose: «vi sentireste attratti da un film o da un libro semplicemente perché è lungo? (“Ehi tu, dovresti proprio leggere Moby Dick, sai? è super lungo!”)». Poi faceva l’esempio del baseball, che è notoriamente uno sport lento e con lunghissime pause, una specie di “long-form sport”, e dice «ok, ma a quelli della Lega del baseball verrebbe mai in mente di promuovere il baseball dicendo che è lungo?».

Lasciandosi alle spalle certe dicotomie pigre e abbastanza inutili, il giornalismo dovrebbe piuttosto tornare a occuparsi di aspetti più rilevanti, scrive Bennet, e poi aggiunge: «Man mano che evolveranno il giornalismo e le sue forme di distribuzione su internet, la distinzione più significativa finirà per diventare non corto-lungo ma buono-cattivo». Pur riconoscendo l’importanza delle ripercussioni della rivoluzione digitale sul futuro del giornalismo, Bennet trova piuttosto improbabile che riportare l’attenzione sulla lunghezza di un articolo possa effettivamente portare a un giornalismo “nuovo”. Peraltro, dice lui, quello di scrivere senza limiti è anche un rischio nel giornalismo online, che non occorre incentivare: non dover fare i conti con i limiti fisici della stampa tipografica ha in parte eliminato quella fase in cui l’autore o l’editor erano tecnicamente costretti a selezionare e privilegiare le parti più significative di un articolo.

Nel dibattito è intervenuto domenica anche il direttore di BuzzFeed Ben Smith, in un articolo in cui spiega le ragioni che lo portarono ad assumere, nella primavera del 2012, un editor specifico per la revisione dei pezzi lunghi. Smith racconta che il termine “longform” fino a due anni fa si riferiva a due cose: o ai migliori articoli delle riviste cartacee, presi e incollati tali e quali su internet, spesso senza neanche una formattazione decente, oppure ai pezzi molto lunghi e poco o niente revisionati, scritti dagli autori più per “amore” che per soldi. Non c’erano nelle redazioni online risorse sufficienti per pagare un editor dei pezzi lunghi, e quindi alcuni di quei pezzi erano lunghi – e a volte molto noiosi – più che altro perché nessun editor ci aveva messo mano, da cui l’idea di BuzzFeed di assumerne uno che si dedicasse espressamente a quello.

Il tema del longform journalism è stato recentemente affrontato – seppure lateralmente – anche da Margaret Sullivan, public editor del New York Times, in un articolo in cui sostiene che questa nuova tendenza dei giornali a pubblicare lunghi articoli di approfondimento sia in parte dovuta anche al fatto che le breaking news – e in genere le cose che accadono nel mondo, e solo quello – sono già tempestivamente comunicate da mezzi a cui i lettori possono accedere in qualsiasi momento. In qualità di public editor – e quindi, tra le altre cose, di contestatrice di eventuali mancanze del giornale – Sullivan segnala però che attualmente gli articoli principali del NYT vanno “troppo in direzione dell’interpretazione, dell’analisi e dell’elaborazione”, e che il lettore preferirebbe arrivare alla “notizia” al secondo paragrafo, non al settimo. Si è creata una situazione in cui – prosegue Sullivan – il giornalista è portato a scrivere il pezzo già con un approccio da “secondo giorno”, dopo che ha trattato quella notizia per molto tempo, spesso dopo averla aggiornata più volte; ma il lettore non è in quella condizione lì, e preferirebbe sentirsi raccontare quella notizia piuttosto che leggerne l’analisi.

Un’altra distinzione fondamentale – che aiuta a orientarsi in un dibattito in cui la confusione, alla fine, è anche terminologica – è quella che ha fatto in un post sul suo blog Marco Arment, sviluppatore, scrittore ed esperto di tecnologie: tra la diffusione degli articoli lunghi e la diffusione delle applicazioni che permettono di leggere, in un altro momento e da qualsiasi dispositivo, gli articoli “salvati” navigando sul web durante il giorno. Arment è il creatore di Instapaper, un’applicazione da lui gestita per cinque anni e poi rivenduta nell’aprile 2013: è la prima e più nota applicazione per “salvare” articoli online in un archivio personalizzato e poterli poi leggere da smartphone, tablet o pc, formattati in modo uniforme (di applicazioni che fanno più o meno questa stessa cosa ce ne sono diverse, anche integrate nei browser: un’altra è Pocket, che prima si chiamava Read It Later).

D’accordo con il direttore dell’Atlantic, Arment sostiene innanzitutto che la distinzione tra articoli lunghi e brevi non sia pertinente per stabilirne la qualità, e poi che non abbia neppure senso legare il rinnovato interesse per i pezzi lunghi al successo di applicazioni come Instapaper: in altre parole, non è affatto detto che il genere “leggilo-più-tardi” coincida con il “genere-lungo”, sebbene molti li mettano insieme. Le statistiche di utilizzo, scrive Arment, non indicano alcuna correlazione tra la lunghezza dei pezzi e il numero di “salvataggi” su Instapaper. Secondo lui queste applicazioni hanno successo non perché permettono di leggere più comodamente gli articoli lunghi, ma perché permettono di leggere in un altro contesto rispetto a quello della loro scoperta, un’operazione che di solito avviene con una predisposizione diversa e in un momento diverso. Altrimenti non si spiegherebbe, conclude Arment, perché in molti salvano anche articoli di tre paragrafi: “li salvano perché vogliono leggerli attentamente, e non potevano farlo nel contesto in cui li hanno salvati”.

Foto: Peter Macdiarmid/Getty Images