Liberi tutti

Come cambia l'open source ai tempi della Apple

Da una decina d’anni a questa parte, più o meno dall’uscita del Cluetrain Manifesto, ci siamo abituati a pensare che le piattaforme open source siano molto meglio di quelle proprietarie. Più aperte per definizione, sarebbero di conseguenza più democratiche e innovative. Ma siamo proprio sicuri? Steven Berlin Johnson, fondatore di outside.in e vivacissimo analista della rete, sulle pagine del New York Times lancia una provocazione che fa drizzare i capelli a tutti i paladini del peer to peer.  Il suo punto è molto semplice: negli ultimi due anni il successo della piattaforma Iphone, con le sue 150.000 applicazioni create, ha  dimostrato incontrovertibilmente che anche la più dorata delle gabbie può diventare una formidabile fonte di sviluppo e sperimentazione. Di più. Può addirittura aiutare i piccoli sviluppatori, proprio quelli tanto osteggiati dai sistemi proprietari. Basti pensare che fino a oggi più della metà delle applicazioni Iphone più famose sono state create proprio da piccoli team indipendenti. E che è proprio grazie a loro se oggi l’Iphone è anche un lettore di ebook, uno strumento musicale, una tavoletta per disegnare e centinaia di altre cose che fino a poco tempo fa non esistevano. Il che non vuol dire, continua Johnson, che il sistema della Apple sia perfetto e privo di rischi. Ma vuole certamente dire che a certe condizioni, anche un walled garden può trasformarsi in una rain forest.