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  • Domenica 2 aprile 2017

Dovremmo invadere la Corea del Nord?

Se lo chiedono in molti dopo gli ultimi test nucleari e missilistici del regime di Kim Jong-un, ma potrebbe non essere una soluzione praticabile: e quindi cosa rimane?

Kim Jong-Un, al centro, insieme ad alcuni militari nordcoreani (STR/AFP/Getty Images)
Kim Jong-Un, al centro, insieme ad alcuni militari nordcoreani (STR/AFP/Getty Images)

Il 16 marzo il segretario di stato americano Rex Tillerson era in visita a Tokyo, in Giappone, dove ha incontrato il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida. I due hanno finito per parlare della Corea del Nord, com’era inevitabile, visto che il regime nordcoreano è la principale minaccia alla sicurezza nazionale del Giappone e negli ultimi anni è diventata un potenziale pericolo anche per gli Stati Uniti. Tillerson non è andato per il sottile e con un paio di frasi ha deciso di fare a pezzi l’approccio degli ultimi governi americani verso la Corea del Nord: «Penso che sia importante riconoscere che la diplomazia e gli altri sforzi degli ultimi 20 anni per portare la Corea del Nord a “denuclearizzarsi” sono falliti». Tillerson ha proposto un «nuovo approccio» che però non ha voluto spiegare e di cui si è avuta una vaga idea solo il giorno dopo, quando ha detto di essere favorevole a politiche più aggressive nei confronti della Corea del Nord e ha parlato dell’ipotesi di un “preemptive attack”, cioè un attacco che anticipi quello nemico, in risposta a una chiara minaccia (la scienza delle relazioni internazionali differenzia il concetto di “preemptive attack” da quello di “preventive attack”, che invece è un attacco che viene compiuto quando non esiste una minaccia concreta e imminente alla propria sicurezza nazionale: in italiano però non esiste un corrispettivo di “preemptive attack”, e per semplicità qui useremo le espressioni “guerra preventiva” e “attacco preventivo” – concetti più immediati e chiari – per indicare il tipo di attacco a cui voleva riferirsi Tillerson).

Tillerson KishidaIl segretario di stato americano Rex Tillerson stringe la mano al ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida alla fine di una conferenza stampa congiunta a Tokyo, il 16 marzo 2017 (TORU YAMANAKA/AFP/Getty Images)

Tillerson, che è già stato definito il segretario di Stato americano più debole di sempre e che non ha grande dimestichezza con le questioni di politica estera, è stato molto criticato per le sue affermazioni, soprattutto perché non ha saputo presentare un approccio alternativo a quello adottato dall’amministrazione Obama. Le sue critiche, comunque, non sono state le prime di questo tipo. Da tempo diversi analisti ed esperti ritengono che qualcosa nell’approccio americano degli ultimi decenni verso la Corea del Nord non abbia funzionato, perché oggi il mondo si ritrova un paese con un regime dittatoriale dotato di armi nucleari, imprevedibile, di cui si sa pochissimo e che non sembra avere paura di essere sempre più aggressivo, nonostante il rischio di essere attaccato. Quasi nessuno ha un’idea chiara di cosa fare e ogni giorno che passa è visto come un giorno in più che il regime nordcoreano può sfruttare per sviluppare la sua tecnologia nucleare militare. E quindi? È arrivato il momento di invadere la Corea del Nord? Partiamo dall’inizio.

Punto primo: cosa sta criticando Tillerson?
Dalla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno adottato tre approcci diversi per indurre la Corea del Nord ad abbandonare il suo programma nucleare militare. Il primo fu un insieme di tentativi per persuadere il regime nordcoreano a cambiare atteggiamento verso l’Occidente: gli Stati Uniti rimossero unilateralmente le loro testate nucleari dalla Corea del Sud (1991) e tolsero la Corea del Nord dalla lista degli stati sponsor del terrorismo (2008), tra le altre cose. Ma non funzionò. Il secondo fu l’imposizione delle sanzioni – molte sanzioni – decise sia da organizzazioni internazionali (ONU e UE) sia da singoli paesi (tra cui gli Stati Uniti) e finalizzate a fare pressioni sul regime nordcoreano per costringerlo ad abbandonare i test missilistici. Di nuovo, non ci furono grandi risultati, soprattutto perché la Corea del Nord poteva contare sulla sua alleanza con il governo comunista della Cina, riluttante a rispettare le restrizioni previste dalle sanzioni internazionali. Il terzo approccio è quello in vigore oggi e introdotto dall’amministrazione Obama, la cosiddetta “strategia della pazienza”: guardare, aspettare e anticipare il collasso della Corea del Nord. La “strategia della pazienza” si basa sulla convinzione che il regime nordcoreano prima o poi crollerà. Ma è davvero così?

Nel 2015 Obama definì la Corea del Nord «il paese più sanzionato al mondo» e ribadì il concetto centrale della “strategia della pazienza”: «nel tempo vedremo un regime come questo collassare» (dal minuto 9.27)

Nel corso degli ultimi otto anni ci sono state molte critiche all’approccio adottato dall’amministrazione Obama, che è stato definito da più parti inefficace. Bret Stephens, opinionista del Wall Street Journal e premio Pulitzer nel 2013, ha scritto per esempio che la “strategia della pazienza” sarebbe una politica efficace «se non fosse che il tempo è contro di noi». Secondo Stephens, la capacità del regime nordcoreano di installare testate nucleari su missili balistici intercontinentali – cioè quei missili che hanno una lunghissima gittata e che potrebbero colpire il territorio americano – non è più solo un’ipotesi. Più si aspetta a fare qualcosa e più tempo si lascia alla Corea del Nord per fare altri test e migliorare la sua tecnologia.

Un altro esperto molto critico è Jong Kun Choi, docente di studi internazionali dell’Università di Yonsei, a Seul. In un articolo pubblicato poco più di un anno fa sulla rivista specializzata The Washington Quarterly (PDF), Jong ha definito l’approccio di Obama una “strategia controintuitiva”, perché si basa sull’ipotesi che succederà qualcosa che in realtà è molto difficile prevedere, vista la poca conoscenza che abbiamo del regime nordcoreano. Con la “strategia della pazienza”, ha scritto Jong, sono andate storte due cose. La prima è che l’amministrazione Obama ha ridotto in maniera significativa gli sforzi per cercare di capire come funziona il regime di Kim Jong-un: le accuse di violazioni dei diritti umani sono state continue e pressanti, ma la conoscenza dei meccanismi politici interni del regime e delle sue capacità militari è rimasta minima e superficiale; molto inferiore a quella che era riuscita a raggiungere l’amministrazione di Bill Clinton, che nel 1994 aveva firmato un ambizioso accordo con la Corea del Nord sulla limitazione del programma nucleare nordcoreano e sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali. La seconda cosa andata storta è che questa scarsa conoscenza della Corea del Nord ha portato a una generale disinformazione sul tema. Non solo la stampa di tutto il mondo ha cominciato a riportare storie incredibili e assurde sulla Corea del Nord, ma molti leader politici occidentali si sono convinti che il crollo del regime nordcoreano prima o poi avverrà.

Il punto è che finora non è avvenuto, e di crisi la Corea del Nord ne ha passate parecchie: la terribile carestia degli anni Novanta, due successioni alla guida del paese, le moltissime sanzioni dal 2006 ad oggi. Eppure il regime ha sempre retto senza dover rinunciare allo sviluppo del suo programma nucleare, anche grazie all’appoggio della Cina, che pur mostrandosi insofferente verso la crescente aggressività nordcoreana non sembra ad oggi intenzionata a stravolgere le sue politiche. In sostanza, i critici della “strategia della pazienza” non dicono che il regime sicuramente non crollerà: sostengono però che non bisogna contarci troppo, perché ne sappiamo troppo poco e ormai il tempo a disposizione sta finendo.

Perché l’azione preventiva non può funzionare
Non è ben chiaro quale sia il piano di Tillerson e dell’amministrazione Trump verso la Corea del Nord, se non un generico approccio più aggressivo. Tillerson non ha però escluso il “preemptive attack”, che vuol dire attaccare il nemico in presenza di una minaccia concreta (attaccare subito prima di essere attaccati, in pratica): è un tipo di approccio di cui si è parlato diverse volte negli ultimi anni e che nel caso della Corea del Nord può voler dire cose diverse, ha spiegato il New York Times.

Primo caso: gli Stati Uniti potrebbero colpire le rampe di lancio dei missili nordcoreani, togliendo alla Corea del Nord la capacità di attaccare per prima. Il problema è che molte di queste rampe potrebbero essere nascoste in luoghi segreti, come i tunnel sotterranei, e il rischio è che una volta partito l’attacco il regime nordcoreano decida di lanciare dei missili armati di testate nucleari dalle rampe non colpite.

Secondo caso: compiere un attacco esteso contro le strutture missilistiche e nucleari della Corea del Nord e allo stesso tempo lanciare degli attacchi informatici per distruggere il sistema di comando militare nordcoreano. Non sarebbe comunque una soluzione definitiva al problema, perché il programma nucleare militare nordcoreano è “fatto in casa” e il regime avrebbe le conoscenze per ricostruire gli obiettivi colpiti. A quel punto ci sarebbe inoltre l’altissimo rischio di una rappresaglia: il governo nordcoreano si sentirebbe sotto attacco e potrebbe usare le installazioni militari rimaste in piedi per rispondere con un missile nucleare.

Terzo caso, il più improbabile e anche il più rischioso: gli Stati Uniti potrebbero iniziare una guerra di invasione, come quella che portò alla destituzione dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein nel 2003. È la soluzione più rischiosa perché a quel punto la Corea del Nord userebbe quasi certamente le sue armi nucleari e chimiche contro i suoi vicini – come Corea del Sud e Giappone – uccidendo moltissime persone.

Quindi cosa fare con la Corea del Nord? Altre due soluzioni
Oltre alle ipotesi degli attacchi preventivi e dell’invasione, che come detto potrebbero avere conseguenze imprevedibili e molto pericolose, ci sono altri due scenari molto dibattuti, che sembrano essere meno rischiosi, almeno sulla carta. Il primo riguarda un coinvolgimento della Cina. Bret Stephen ha scritto sul Wall Street Journal che il governo cinese potrebbe organizzare un colpo di stato in Corea del Nord, dando all’attuale leadership l’opzione dell’esilio. Negli ultimi anni la Cina ha mostrato sempre più insofferenza verso il regime nordcoreano, nonostante i due paesi siano ancora alleati, soprattutto perché Kim Jong-un ha brutalmente eliminato dal suo regime i leader più vicini al governo cinese. Una soluzione di questo tipo avrebbe dei vantaggi sia per gli Stati Uniti che per la Cina: gli americani si troverebbero a trattare con un regime avverso ma più ragionevole e disposto ai negoziati sulle armi nucleari, mentre i cinesi non rinuncerebbero all’esistenza della Corea del Nord come stato indipendente e alleato, abbastanza forte da essere usato per limitare l’influenza statunitense nella regione.

Il problema di questo piano, tolte le implicazioni legali ed etiche del fare un colpo di stato in un paese indipendente, è legato alle intenzioni del governo cinese. Finora la Cina non è sembrata incline a collaborare con gli Stati Uniti per mettere in pratica una soluzione di questo tipo e la forte retorica anti-cinese di Trump potrebbe in futuro ridurre il margine di cooperazione tra i due paesi. La situazione si è complicata nelle ultime settimane, dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato di avere avviato l’installazione in Corea del Sud del sistema di difesa antimissilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense system), che è stato definito dalla Cina come un’aperta e pericolosa mossa fatta dagli americani nell’ambito di una grande strategia che avrebbe l’obiettivo di garantire agli Stati Uniti una notevole superiorità strategica in Asia. Una cosa inaccettabile per la Cina.

Per le stesse ragioni è difficile pensare che sia facilmente praticabile la soluzione del negoziato, che comunque viene considerata la migliore da alcuni esperti, tra cui Jong Kun Choi. Se l’obiettivo ultimo di qualsiasi sforzo dovrebbe rimanere la denuclearizzazione della Corea del Nord, dice Jong, il passo preliminare e necessario dovrebbe essere costringere il regime nordcoreano a considerare dei possibili negoziati come l’unico modo per uscire dall’isolamento. Anzitutto gli Stati Uniti dovrebbero smettere di usare la retorica dell’inevitabile collasso della Corea del Nord e cominciare a pensare a una roadmap per la denuclearizzazione: dovrebbero offrire qualcosa in cambio alla Corea del Nord, tra cui delle solide garanzie alla sua sicurezza. Per esempio potrebbero farsi promotori di nuovi negoziati che coinvolgano Corea del Sud, Corea del Nord, Stati Uniti, Cina, Giappone e Russia, e che in passato hanno prodotto alcuni risultati (per esempio un precedente accordo prevedeva la chiusura delle centrali nucleari nordcoreane in cambio di aiuti umanitari e della normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord). Oggi la situazione politica in Asia è molto più complicata rispetto a qualche anno fa, e la soluzione diplomatica molto più difficile, anche per l’aumento delle tensioni tra Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altra. Ma se si esclude l’ipotesi dell’invasione e dell’attacco preventivo, non rimane molto altro.