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  • Sabato 25 maggio 2013

Il tennis di Ashe e quello di Graebner

Un libro del celebre giornalista John McPhee, da poco pubblicato in Italia, racconta il bello del tennis andandolo a scovare in una dimenticata semifinale del 1968

Arthur Ashe starts a sweeping backhand return in his match against Clark Graebner in the semifinals of the U.S. Open tennis championships at Forest Hills, N.Y., Sept. 8, 1968. Ashe advanced to the finals with a 4-6, 8-6, 7-5, 6-2, victory. (AP Photo)
Arthur Ashe starts a sweeping backhand return in his match against Clark Graebner in the semifinals of the U.S. Open tennis championships at Forest Hills, N.Y., Sept. 8, 1968. Ashe advanced to the finals with a 4-6, 8-6, 7-5, 6-2, victory. (AP Photo)

Livelli di gioco è un saggio sul tennis scritto dal celebre giornalista americano John McPhee: “uno dei racconti più affascinanti di sempre sul tennis”, ha spiegato Marco Imarisio sul Corriere della Sera. Nel libro, McPhee racconta l’evoluzione di due diversi modi di giocare, divenuti evidenti a tutti nella semifinale degli U.S. Open vinta da Arthur Ashe contro Clark Graebner 4-6 8-6 7-5, e giocata l’8 settembre 1968. Due tecniche e due approcci al gioco del tennis opposti: uno istintivo e creativo, l’altro razionale e metodico, segno delle diverse personalità dei due giocatori. Arthur Ashe vinse quella partita e poi anche la finale, diventando il primo giocatore nero a vincere un torneo del Grande Slam.

Anche il pensionato di Novi Sad si era dovuto arrendere. Ogni notte si addormentava, per venire subito risvegliato dal rumore di una pallina da tennis tirata contro il muro, al piano di sotto. Si alzava, andava in cucina, e attendeva invano che il rumore finisse. Invano. La bambina dei vicini poteva andare avanti all’infinito. Poi, un giorno, i signori Seles partirono per l’America, portando con loro la figlia Monica. Ma il pensionato non aveva più ritrovato il sonno. Adesso sedeva in cucina, ascoltando il silenzio, vivendo l’assenza. Quei colpi ritmati gli mancavano.

Ognuno ha il suo momento di resa preferito. Succede sempre. Prima o poi cedi all’evidenza. Il tennis ti manda al manicomio. Nessun altro sport, o disciplina, è capace di tirare fuori istinti primordiali e sconosciute attitudini interiori, fino a diventare ossessione. «Nel tennis i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco. Un metodico tenderà a giocare in modo metodico, mentre chi ha estro nella vita lo tirerà fuori anche in campo. Una partita lottata, tesa, è prima di ogni altra cosa uno scontro di psicologia».

«Livelli di gioco», il primo dei due saggi di John McPhee che Adelphi si appresta a pubblicare sotto il titolo Tennis , è uno dei racconti più affascinanti di sempre sul tennis. Forest Hills, 1968, semifinale dello Us Open, prima edizione di uno Slam con porte aperte a dilettanti e professionisti. Arthur Ashe contro Clark Graebner. Nero e bianco. Entrambi amatori, entrambi americani. Negli annali non c’è traccia di questa partita. Il suo destino è stato di sopravvivere della luce riflessa di questo libro. Non segnò alcun passaggio di consegne tra i grandi del tempo, non è in alcun modo divenuta epopea. In quel pomeriggio d’agosto, John McPhee cercava altro. Non il contrasto di stili, che dovrebbe essere essenza del gioco, ma di personalità. Due esseri umani quanto più possibile distanti uno dall’altro, uniti dalla condivisione di un evento sportivo.

(continua a leggere sul sito del Corriere della Sera)

Un’intervista con Arthur Ashe nel 1968