I soldi dell’Università

Dove è sbagliato cercarli, cosa deve fare il PD, e cosa c'entra il mago Silvan: un'analisi dal campo

di Filippomaria Pontani

Nel momento in cui la maggioranza traballa, e l’attività di governo s’incaglia in una delle paralisi più lunghe della storia recente, è senz’altro doveroso che l’opposizione s’impegni a preparare un programma di governo del Paese. In tale cornice, le proposte per l’università e la ricerca acquisiscono una duplice importanza: da un lato perché, come usa dire, ne va del nostro futuro, e perché guardando alle politiche condotte su questo tema si capisce abbastanza dell'”aria che tira”; dall’altro perché l’unica riforma di iniziativa governativa promossa dal gabinetto Berlusconi IV è stata proprio quella relativa al sistema universitario, che va sotto il nome del ministro Gelmini.

Non ho alcuna intenzione né di ribadire i giudizi su tale riforma (che sta creando negli atenei il prevedibile disorientamento, normativo e istituzionale) né di tediare i lettori del Post insistendo su astrusi codicilli o faide di baroni. Intendo parlare invece brevemente di una proposta importante e molto netta, presentata in forma di interrogazione parlamentare da un manipolo di senatori del Partito Democratico e del cosiddetto Terzo Polo (una sorta di “modello Macerata”, per intendersi), capeggiati da Pietro Ichino, Tiziano Treu, Francesco Rutelli e Adriana Poli Bortone. I proponenti chiedono esplicitamente al governo se non sia il caso di applicare in Italia il famoso “rapporto Browne”, che ha ispirato una recente legge del governo guidato da David Cameron: in sostanza, l’innalzamento delle tasse universitarie a un ammontare di circa 10mila euro, che i più agiati pagano subito e per intero, e i meno abbienti invece possono vedersi anticipati tramite un prestito in forma di mutuo bancario al tasso del 2,2/3 per cento annuo, da ripagare se e quando, nel corso della loro vita professionale, raggiungeranno un reddito adeguato (si presume, non inferiore ai 40000 euro annui). Lo scopo dichiarato della proposta è quello di abbattere quasi del tutto il peso degli oneri universitari sul bilancio dello stato, di far pagare l’università anzitutto a chi è più ricco, di favorire la competizione fra gli atenei (gli studenti, si sostiene, correranno là dove pensano di ottenere una formazione che consenta loro di accedere a un mestiere redditizio, e dunque di ripagare il debito contratto).

Prima osservazione, di carattere politico. Membri influenti del principale partito progressista italiano propongono di adottare in Italia la medesima politica universitaria dei Tories, che ha suscitato a Londra proteste mai viste prima in tempi recenti (qualcuno ricorderà la macchina di Carlo e Camilla scossa dall’onda dei manifestanti inferociti), e che, nel riprodurre da vicino alcuni aspetti del modello americano, ha indotto perfino i docenti della ricca Oxford a dure prese di posizione. Prese di posizione non condivise, evidentemente, dai loro colleghi che si apprestano a insegnare nel New College of the Humanities, sito nello storico quartiere di Bloomsbury, e pronto a esigere dai propri studenti una retta di ben 18mila sterline: apprendiamo che molti dei futuri docenti si professano “di sinistra”, e non ce ne stupiamo dal momento che alcuni fra gli ideologi e gli esponenti più dotti dei progressisti italiani insegnano tra la Bocconi e il San Raffaele: ognuno ha la sinistra che si merita, e il problema è comune se anche i francesi stavano per consegnare la gauche a un signore che (qualunque cosa ci facesse) frequentava suites da 3000 dollari a notte.

Seconda osservazione, di carattere sostanziale. Lo spauracchio che si sbandiera e contro il quale si chiama a raccolta (cito le parole di Andrea Ichino, fratello di Pietro e tra i massimi cantori del provvedimento) è il “dare gratis a tutti un’università pessima”. Francesco Sylos Labini, tramite precise analisi cui rimando con totale adesione, ha mostrato l’infondatezza di questo slogan: l’università italiana non è affatto gratis (anzi, le nostre tasse universitarie sono già fra le più alte d’Europa), l’università italiana non è affatto pessima (certo non per la produzione scientifica, dove anzi si colloca sovente nelle primissime posizioni): questo non significa, beninteso, che non necessiti di cambiamenti anche profondi, soprattutto nell’ambito della moralità, della struttura, dei finanziamenti. Francesca Coin ha richiamato inoltre gli esiti catastrofici che perfino negli USA il sistema dell’indebitamento sta ormai producendo sul piano sociale ed economico: l’inquietante articolo di Malcolm Harris sulla “bolla universitaria” rimane in attesa di autorevoli smentite.

Proposte come quella di Ichino, quando non si avvalgono dei dati di studiosi come Perotti, che truccano i numeri nel disperato intento di provare che la spesa italiana per studente è la più elevata d’Europa (si veda in proposito R. Mordenti, L’università struccata, Puntorosso 2010), partono comunque dal presupposto indimostrato che l’unica università che funziona sia quella privata come la Bocconi – e anche qui i dati di Sylos Labini indicano una realtà ben diversa. Il fastidio di questi signori rispetto all’università pubblica di massa è tale che si neglige il dato di fondo (in Italia ci sono meno laureati, in percentuale, rispetto agli altri Paesi europei), e si sviluppano striscianti meccanismi di esclusione volti a selezionare gli “studenti migliori” già in entrata. Si crea debito sulla testa degli studenti invece di considerarli una risorsa, un investimento.

Osservazioni dettagliate.
a) Sostituire il concetto di “borsa di studio” con quello di “debito” o “mutuo” è una rivoluzione copernicana, non solo per il bilancio economico del singolo studente ma anzitutto per la sua dignità. Chi non capisce questo non solo manca di rispetto nei confronti dei tanti che già oggi fanno sacrifici per mantenersi agli studi senza indebitarsi, ma mostra di capire ben poco di ciò che è l’Italia, un Paese che storicamente (non manca di ripetercelo con plauso anche il ministro dell’Economia) si regge sul risparmio delle famiglie, sulla scarsa propensione a contrarre debiti – un fatto culturale che ci colloca agli antipodi rispetto agli Stati Uniti, e che forse non sarebbe il caso di liquidare a cuor leggero. Né si venga a dire che è veramente indebitato solo chi riesce in procedere di tempo a raggiungere uno stipendio alto: è proprio su questo meccanismo che si fonda l’intera proposta, e gli studenti meno successful (o semplicemente: quelli che, come la grande maggioranza degli studenti di oggi, non trovano a breve un lavoro molto redditizio) dovrebbero tecnicamente, come avviene già altrove, dichiarare bancarotta. E non so se ci sia bisogno di sottolineare gli effetti distorsivi che su un sistema di questo tipo produrrebbe l’enorme evasione fiscale di questo Paese.

b) Non c’è dubbio che negli ultimi anni l’università abbia visto scemare il ruolo di “ascensore sociale” che aveva svolto in passato; ciò non toglie che molti dei nostri laureati siano i primi laureati della famiglia, e che (qualunque cosa dicano gli algoritmi di Ichino) in Italia è ancora possibile studiare senza finire sul lastrico. Certo, l’Università dovrebbe promuovere meglio la mobilità sociale: ma è alzando le tasse che vogliamo perseguire questo obiettivo? Semmai, il problema viene dalla generale scarsità di investimenti nel Fondo per il diritto allo studio, il quale, mentre Ichino e i suoi partoriscono le loro pensate, viene trasformato in un sedicente Fondo per il merito, decurtato in misura del 90% per gli anni a venire (verrà gestito da una Fondazione deputata fra l’altro a reperire fantomatici finanziamenti esterni).

c) Il punto dirimente sta nella visione stessa che abbiamo dell’istruzione superiore: c’è qualcuno che la ritiene un “bene comune”, ossia uno di quei servizi che – specie in una società avanzata come la nostra – deve per definizione essere erogato a tutti in modo (tendenzialmente) gratuito, ovvero senza distinzione progressiva in base al reddito. Io spererei che un partito progressista sposasse questa linea, non quella – certo legittima, e probamente sostenibile – della privatizzazione dell’istruzione e dell’indebitamento, che è storicamente un patrimonio della destra.

d) Nel concreto: se – come si propone nel disegno – un ateneo che produce troppi studenti insolventi (ossia incapaci di ripagare il loro debito perché percettori di un reddito troppo basso) è destinato a essere sanzionato, quale ateneo non farà carte false per avere nelle sue file il maggior numero possibile di studenti abbienti? Qui i malevoli potrebbero ricordare che, portando alle estreme conseguenze il disegno di un’università finanziata dai privati, perfino le università dell’Ivy League (negli USA dunque, non in Italia) sono state autorevolmente accusate di distorcere il loro “meritocratico” sistema di selezione guardando al portafoglio (e alle donazioni) dei candidati: il libro di Daniel Golden è in tal senso una lettura istruttiva.

e) Nel concreto: in questo modello si finirebbe implicitamente per indurre gli studenti (e per indurre gli atenei a indurre gli studenti) a intraprendere solo gli studi più redditizi (in senso numismatico, e secondo i parametri del vigente mercato del lavoro): chi di loro, gravato ex ante da un debito che aumenta di anno in anno (o comunque deprivato di ingenti sostanze per tutti i suoi anni di università), sarebbe incentivato a diventare maestro elementare (o anche fisico teorico) invece che avvocato o finanziere? Il riflesso sociale della scelta è troppo chiaro perché vi si debba insistere sopra, ed è chiaro che non ha molto a che fare con il peraltro discutibile proposito di svuotare di studenti le facoltà “inutili”.

L’imitazione del modello inglese in un momento in cui si invocano le ristrettezze di bilancio e le difficoltà dell’economia globale, è parte di un disegno preciso, e fondamentalmente classista: non risulta che in Francia si pongano simili problemi, non risulta che in Germania abbiano intenzione di ridurre la spesa per la ricerca, che per inciso è molto maggiore (in termini percentuali) rispetto alla nostra. Cominciare a fare economie dall’università pubblica è una chiara scelta ideologica, rispettabile come tutte, ma ideologica.
Non a caso, anche i responsabili università del Partito Democratico, che hanno riunito il 9 giugno a Roma un’importante convention sui temi dell’istruzione superiore, si sono apertamente dichiarati contrari alla proposta, argomentando il loro pensiero con saldezza e coerenza: rimando in particolare al deciso comunicato di Marco Meloni . Si auspicherebbe, su un tema così delicato e importante, una qualche uniformità di linea all’interno del partito, perché il dibattito è sacrosanto, ma le interrogazioni parlamentari – specie se presentate da senatori esperti e influenti – dovrebbero essere un punto d’arrivo, non una pistola sul tavolo.

In quella convention, tra l’altro, si è affrontato con coraggio il tema del rapporto fra università e mondo del lavoro, uno dei punti nodali dei nostri tempi. Esperienze importanti sono state messe a confronto, da quella di chi predica una ristrutturazione della didattica e un abbandono della falsa retorica della competizione tra atenei, a quella di chi si impegna da anni sul delicato terreno della valutazione scolastica e universitaria. Da più parti (anche da parte del segretario Bersani) si è respinto il modello dell’università “professionalizzante” portatrice di solo sapere tecnico specifico, e si è evocato l’esempio di quelle piccole e medie imprese che hanno stretto fecondi accordi di collaborazione con gli Atenei, non assumendo neolaureati formati ad hoc, bensì profittando della loro competenza generale per formarli poi a un mestiere specifico, tramite assunzioni che si sono presto trasformate in posti stabili. Enrico Letta ha insistito sulla necessità per la media impresa italiana di “ampliare lo sguardo”, di investire nell’innovazione e di valorizzare i saperi ben più di quanto non sia avvenuto finora. Marco Simoni ha individuato il male maggiore nella mancanza di riforme strutturali organiche che coinvolgano a un tempo l’università e il mercato del lavoro, ché ogni intervento separato è destinato (lo si è visto) a fallire.

È rimasta parzialmente inevasa, tuttavia, la questione della governance: non è un mistero che una delle novità più importanti della riforma Gelmini consista nell'”ingresso dei privati nell’Università” (che poi vuol dire: nei Consigli di amministrazione). Nessuno vuole qui condurre una battaglia ideologica contro questa norma, che del resto il PD condivide nella sostanza sin dal suo primo apparire; né mancano, come s’è detto, casi di collaborazione assolutamente proficua fra università e imprese del territorio (va detto che al Centronord queste esperienze sono molto più diffuse che al Sud, e forse non sarà necessariamente colpa della qualità delle Università meridionali). Ciò che viene da chiedersi, specie alla luce di quanto appena rilevato, è se convocare le imprese nei CdA anche prima che esse abbiano mostrato durevoli interessi di investimento in ricerca, non sia quantomeno uno hysteron proteron: altrove ho lungamente argomentato come proprio l’ingresso delle imprese nel sistema di innovazione e ricerca delle Università sia uno dei mantra più vanamente ribaditi dai ministri di ogni colore degli ultimi dieci anni, i quali hanno dovuto constatare come nonostante tutti gli incentivi e le agevolazioni il matrimonio sia avvenuto in un numero tutto sommato modesto di casi, e con effetti “di sistema” praticamente nulli. Pensiamo davvero che sia tutta colpa dell’Università, delle sue sclerosi e delle sue chiusure?

Più ancora, ciò che mi preme richiamare qui è la retorica complessiva. Nessuno – torno a dirlo – dubita che l’Università necessiti di riforme, a cominciare da una forte revisione del 3+2 per finire alla valutazione dei docenti (se fatta in modo credibile e senza velleità di sceriffo): ma a furia di parlare male del sistema universitario presente si veicola il concetto che tutto il negativo alligni in esso, e che sia appunto esso a doversi inchinare e uniformare alle mentalità e alle finalità della classe imprenditoriale, senza minimamente discutere gli eventuali demeriti di quest’ultima. Più in generale, si introduce (si è introdotta da un bel pezzo) l’idea di fondo che l’Università debba essere un luogo dove lo studente impara un mestiere specifico (organizzare mostre invece che conoscere la storia dell’arte; lavorare tomaie traspiranti invece che conoscere la chimica), e dove la classe docente bada anzitutto ad attrarre investimenti e capitali. Nel mio Ateneo, la capacità di attrarre finanziamenti è ormai un parametro importante nel decidere a chi assegnare i posti di ricercatore. Così, la retorica aziendalistica (ora più lampante, ma sotto altri governi più o meno camuffata sotto il nome di “autonomia”: si vedano in proposito le riflessioni di Pietro Cataldi), diventa parametro unico di riferimento, privo di alternative.

Parlo di Venezia perché è una realtà che conosco, e perché un rettore giovane e determinato si sta molto adoperando per mettere Ca’ Foscari “al passo con i tempi”, promuovendo con slancio infaticabile – favorito anche da un cospicuo finanziamento premiale ottenuto dal Ministero – decine di iniziative pubbliche e attività di spettacolo (festival, spritz, notti bianche), decine di joint-ventures e di intese internazionali, nonché appuntamenti con le imprese per favorire l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro. Tutte belle cose, che danno visibilità e prestigio all’Ateneo, senza dubbio; e a questo si accompagna una politica di assunzioni di ricercatori a tempo determinato, una cura per la pulizia e il decoro degli spazi, una speciale attenzione alla valutazione della ricerca, e un incentivo affinché i docenti concorrano sempre più ai ricchi fondi europei per la ricerca, troppe volte lasciati scappar via. Questo attivismo ha portato con sé un certo grado di dirigismo (nuovo Statuto approvato a tempo di record, forte concentrazione dei poteri nelle mani del Rettore), una massiccia iniezione di retorica identitaria (continui messaggi sulla nostra “eccellenza”; “branding” e “marketing” come nei campus d’Oltreoceano; cerimonia di proclamazione “American-style” in Piazza San Marco con tanto di lancio dei cappellini; celebrazione del sistema-Venezia tramite accordi e sinergie con lo Studium Marcianum del potente patriarca Angelo Scola), e alcuni aggiustamenti che hanno destato perplessità (abbattimento delle retribuzioni per i contratti di insegnamento, che vengono indicizzate al numero di esami; qualche disordine nella gestione del personale tecnico-amministrativo; compressione delle sessioni di esami di profitto; atteggiamento quanto meno incerto sulla delicata vertenza dei lavoratori delle portinerie).

Ma a interessarmi qui è il principio del pecunia non olet: si incassano 80mila euro dalla Regione Veneto per una cattedra di dialettologia, incuranti della propaganda che Zaia vi sbandiera sopra; si firmano convenzioni con la Geox volte a creare la “Silicon Valley” veneta (la promessa era stata fatta al precedente Rettore già nel 2004), e intanto si concede all’impresa di aprire un negozio nel cortile storico dell’Università (del resto, Moretti Polegato è laureato ad honorem dell’Ateneo), senza curarsi di proteste o malumori; si accettano, per finanziare la neonata Scuola di Relazioni Internazionali, ben 400mila euro da un magnate saudita che recenti articoli hanno mostrato vicino al regime che proibisce la guida alle donne (il tutto senza pensare al rischio cui ci si espone: si ricorderà il caso dei finanziamenti di Saif Gheddafi alla London School of Economics). Né sarà forse del tutto casuale che nel board del think tank del Saudita (nominato di gran carriera “Honorary Fellow” di Ca’ Foscari) sieda un uomo dell’ENI, ente in cui lavora da anni (come presidente della Fondazione Mattei) anche il nostro rettore, pronto a invitare all’inaugurazione dell’anno accademico 2010 l’amico Paolo Scaroni (con Bisignani al seguito?). Non si dica che le lauree ad honorem non contano nulla, o che gli inviti non contano nulla: un Ateneo che già in passato è balzato agli onori delle cronache per scelte discutibili in tale materia dovrebbe forse adoperare la massima prudenza prima di nominare “Honorary Fellows” dal ricco portafoglio, sempre sperando che continuino ad essere respinte candidature come quella presentata dal Rettore nel Senato Accademico di aprile, e riguardante il mago Silvan, distintosi per alti meriti “nel campo dell’illusionismo e della prestidigitazione”.

Gli spunti di riflessione che ho presentati sono solo apparentemente slegati fra loro. L’idea che si va affermando è che l’Università italiana, benché drammaticamente sottofinanziata rispetto a qualsiasi parametro internazionale, costi troppo, e debba smettere la propria veste “pubblica” ed “egualitaria” per selezionare e indebitare gli studenti, e cercare danari ovunque essi si trovino. Io non so se in un altro Paese questa linea avrebbe qualche barlume di senso, o di equità: dubito che ne abbia in un Paese dove il tasso di corruzione è così elevato, dove la competizione è per definizione truccata, dove (i giornali ce ne offrono in questi giorni esempi preclari) tutto viene deciso sulla base di amicizie e conoscenze, dove le Università private nascono e vengono finanziate spesso per meri interessi clientelari, dove la classe dirigente imprenditoriale non può vantare alcuna maggiore “purezza” o credibilità rispetto a quella accademica, e dove la meritocrazia non è praticata anzitutto da chi la predica. Scaricare le conseguenze di questa palude sulle tasche degli studenti, sulla libertà della ricerca, e sull’immagine dei singoli Atenei mi sembra la scelta peggiore, e continuo pervicacemente ad augurarmi che un eventuale governo di sinistra voglia battere strade diverse.