Purché se ne parli
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Purché se ne parli
Michele Serra
Martedì 16 aprile 2024

Purché se ne parli

«Visto che ogni morale è tacciabile di moralismo, forse bisognerebbe agitare, in un mondo così conforme alla stessa regola, il dubbio del conformismo»

Quando si è veramente vecchi? Forse quando niente più desta meraviglia, oppure scandalo. Quando tutto sembra già visto, già sentito, risaputo, e il mondo una specie di vecchio orologio a molla che la ruggine ancora non ha bloccato – ma manca poco. Dunque ogni volta che ancora mi sorprendo, mi emoziono, mi incazzo, la vecchiaia mi sembra più lontana.

In un talk-show di qualche giorno fa il conduttore mostra lo spot della patatina-ostia, l’eucaristia croccante che ha comprensibilmente urtato la sensibilità di alcuni cattolici. Mi aspetto dai due ospiti in studio – un giovane direttore di quotidiano, un anziano sondaggista – un minimo di discussione. Invece esprimono entrambi lo stesso concetto, rapido e leggero: poiché se ne parla, vuol dire che è un ottimo spot. Lo scopo è far vendere le patatine, perché mai dovremmo discuterne? Un divertito sorriso da uomini di mondo accompagna la sentenza, non solo assolutoria, ma elogiativa.

Sono anche io un uomo di mondo – purtroppo o per fortuna. Munito di spirito liberale quanto ne basta a mettermi in guardia contro questa o quella pulsione censoria. Scafato quanto mi serve per alzare le spalle di fronte alle infinite baruffe, sempre sopra tono, che i media sciorinano sotto la testatina “il caso”, o “la polemica”, in genere rilanciando una frase, un comunicato, un post, e facendone una specie di dramma nazionale che dura il breve tempo necessario per metterne in scena un altro. Poche ore, al massimo un paio di giorni (difatti, della patatina-ostia, già non si parla più). E poi, nel caso specifico, poche cose sono prevedibili come le alzate di scudi di gruppi di credenti contro questa o quella mancanza di rispetto alla loro fede – con la differenza, piuttosto rilevante, e dunque sarebbe grave non rilevarla, che la suscettibilità dei cristiani, più o meno da un paio di secoli, non costituisce più un rischio per l’incolumità fisica di chi l’ha offesa.

Detto questo. E detto che quello spot si colloca nella lunga e non nuova scia di “scandalo religioso” inaugurata quarant’anni fa dalla campagna di Pirella, Göttsche e Toscani per i jeans Jesus (“chi mi ama mi segua” impresso su un paio di chiappe cinte di jeans; oggi si aggiungerebbe, all’accusa di blasfemia, quella di istigazione alla molestia di strada). E insomma che l’ultimo dei miei pensieri è iscrivermi nel novero degli indignati. Beh, devo dire che il concetto “se si vende, allora è tutto ok”, mi ha fatto sobbalzare più o meno come mi accadeva da ragazzo.

Perché se davvero il criterio è quello e solo quello – una specie di Criterio Unico – allora tutto il resto diventa indifferente, ogni altra impalcatura di pensiero diventa minima rispetto al totem del successo economico. Ogni altro giudizio – etico, politico, estetico, culturale – diventa polvere: basta un bilancio in attivo a scrollarsela di dosso. Ogni successo è giustificato solamente da se stesso, e le obiezioni si strozzano in gola a chi ha qualcosa da dire, ha sbagliato secolo, ha sbagliato vita, è come se la sola autorità alla quale siamo tutti tenuti a rispondere fosse una specie di ECA (Enorme Consiglio di Amministrazione) che da te, quando gli compari davanti, vuole sapere una cosa soltanto, e sempre la stessa: quanto hai venduto? Quanti clic hai nel sacco? Quanto mi rendi, e quanto mi costi?

Lo so che stiamo parlando di uno spot pubblicitario, ed effettivamente farsi notare e rimanere impressi è lo scopo principale di quel genere di comunicazione. Ma la domanda è: a qualunque costo, con qualunque mezzo, senza che niente possa frapporsi tra noi e il risultato? E se le cose stanno così che senso ha biasimare, come in molti facciamo, l’infinita nebulosa umana che si batte sui social ogni giorno, ognuno per sé, ognuno lo spot di se stesso, nel disperato bisogno di farsi notare? Perché loro, proprio loro che sono solo la moltitudine, l’immensa fanteria, dovrebbero darsi un’etica, un senso, una strategia differente, se tutto attorno il mondo, anche ben prima dei social, si è strutturato attorno al principio che la sola cosa che conta è emergere, spiccare, far parlare di sé?

Con meno alibi, meno scusanti economiche e culturali, il copy brillante, il politicante attento solo al Pil di domani mattina, l’affarista che contempla il suo attivo, l’opinionista cinico che maledice il moralismo e benedice lo spot solo perché “funziona”, e tanto basta, non si rendono conto di fare parte, lungo un solo interminabile binario, dello stesso convoglio sul quale si affollano, sgomitando, gli influencer, gli aspiranti influencer, i tiktoker e gli aspiranti tiktoker, tutti coloro per i quali perdere l’anonimato è il solo modo di esistere veramente. Visto che ogni morale è tacciabile di moralismo, forse bisognerebbe agitare, in un mondo così conforme alla stessa regola, il dubbio del conformismo. È il solo dubbio che potrebbe smuovere perfino gli uomini di mondo.

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Non è vero che si legge di meno. Semmai si legge di più, sommando le galassie di parole sorbite quotidianamente su carta a quelle impresse sulle finestre e finestrelle digitali che ci connettono al mondo. Si legge, però, in modo molto più frammentario, discontinuo, dispersivo, caotico, insomma senza più riuscire a dare alla lettura la sua continuità “classica”: quella che fece divorare a molti di noi, da giovani, i grandi e piccoli romanzi che ci risucchiavano per intere ore nelle loro pagine.

Non so da quanti anni non mi capitava di leggere non dico d’un fiato, ma in pochi giorni, un romanzo. Anzi, un romanzone. Interrompendo la lettura con rincrescimento e riprendendola con una certa trepidazione. Mi è ricapitato con I giorni di Vetro di Nicoletta Verna (Einaudi Stile Libero), quattrocentotrentasei pagine, un “romanzo storico”, dovendo proprio assegnarlo a un genere. Gli anni del fascismo e della guerra raccontati attraverso la vita di due donne, una del popolo, una emancipata, i cui percorsi si intrecciano. La consistenza maschile di entrambi (il fascismo e la guerra) sconvolge e brutalizza le vite e i corpi di Redenta e Iris. È uno dei libri più neri e severi che io abbia mai letto, ma con una luce interna (la letteratura?) che sorregge il racconto dalla prima all’ultima riga, e gli impedisce di soccombere alla durezza dei fatti. Mi è sembrato un grande libro, e volevo dirvelo. Leggendolo ho pensato alla Storia di Elsa Morante, e mi ha colpito leggere lo stesso accostamento nella lunga recensione di Leonetta Bentivoglio su Repubblica.
Ecco un caso – mi rifaccio al tema di Ok Boomer! della settimana scorsa – nel quale la violenza non mi ha dato fastidio. Mi è sembrata una dolorosa necessità narrativa.

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La mia confessione di essere saturo di violenza (parlo della rappresentazione della violenza, ché quella reale fa parte, purtroppo, della struttura del mondo), sia pure parlando di un film rispettabile come Lo chiamavano Jeeg Robot, ha ottenuto un vero e proprio plebiscito tra i lettori. Mi ha colpito il numero delle mail e anche la loro univocità: segno che il problema non è “di nicchia”, insomma. Anche il mio riferimento al paradossale prevalere del tabù sessuale rispetto al non-tabù delle armi (come se eros fosse più sconveniente di thanatos…) è condiviso e spiritosamente rilanciato da questa breve lettera che, se non dice tutto, dice molto.

“Chi è cresciuto in Veneto negli anni ’60 e ’70 ricorda che in ogni parrocchia c’era una locandina con i titoli dei film in cartellone e un giudizio sintetico. Si andava dal ‘per tutti’ solitamente riservato ai western hollywoodiani o a film edificanti come Marcellino pane e vino fino ad ‘adulti con riserva’ per la commedia all’italiana, e al definitivo ‘inaccettabile licenzioso’ spesso riservato a film di qualità, o addirittura capolavori come La Dolce vita. Il gruppo teatrale/musicale vicentino dell’Anonima Magnagati aveva immaginato in un suo spettacolo un dialogo fra due preti estensori di questi giudizi.
– Come xeo questo film?
– Ghe xe i Sioux che copa tuto el VII cavalleggeri, po’ riva l’ VIII cavalleggeri che sbuea i Sioux, po’ riva i Cheyenne che fa in tochi l’VIII, po’…
– Ghe xe basi (baci)?
– No
– Per tuti!
Carlo Vareschi

Delle tante altre mail pubblico, come sempre, solo una nutrita sintesi, anche per evitare ridondanze…

“Uccidere con uno smartphone (bianco). Ovvero: il punto in cui ho abbandonato la visione di Jeeg robot. Ho 50 anni, sono un’anestesista. Basta. Non riesco più”.
Valentina

“La violenza ha stomacato anche me. Non so perché. Forse perché siamo più o meno coetanei. Vorrei che un aspirapolvere cosmico la togliesse dal mondo e soprattutto da dentro di me. Non prima di avere nettato con cura i media su tutte le piattaforme”.
Michele Costabile

“Ho trovato Il sol dell’avvenire di Moretti straordinario per tanti motivi, e dopo anni di disapprovazione per i film di Tarantino anch’io mi sono sentito confortato dalla scena che tu citi. Mostrare la violenza può essere anche un gesto istruttivo, ma dipende soprattutto dal motivo per cui la si vuole rappresentare. Nel film (e nel libro) Niente di nuovo sul fronte occidentale l’agonia del soldato ferito a morte è così cruda (e per me pure un po’ troppo insistita) da suscitare dispiacere, compassione, rigetto della violenza stessa. Mostra veramente cosa succede a un uomo che muore. In Tarantino la violenza è ridicolizzata, banalizzata, una cosa buffa che non suscita nulla a chi la fa, se non la preoccupazione per la pulizia del cervello spiaccicato. La cosa mi fa arrabbiare ancor di più per quanto è bravo Tarantino a girare, un vero talento sciagurato. Se proprio qualcuno vuole mostrare la violenza lo dovrebbe fare con l’obiettivo di renderla orribile e infrequentabile. Per questo ancora si mostrano gli orrori dell’olocausto o delle guerre in atto. Personalmente cerco di evitare pure le serie tv. Con tutti questi serial killer e assassini in giro, fra un po’ non usciremo più di casa”.
Giorgio

“Ho cominciato a vedere Lo chiamavano Jeeg Robot e ho chiuso dopo poco: non mi capita spesso. Il motivo ? La saturazione fisica che hai ben descritto. Mi ė successo qualche altra volta (le stagioni successive alla seconda di Game of Thrones) e il fatto che fosse un allarme fisico e non mentale mi ha aiutato molto a riconoscere il confine. Poi è arrivato il tentativo di razionalizzare: le scene di violenza devono avere una misura, in quantità e qualità, in armonia con la storia che vuoi raccontare. Quando eccedono ti sei fatto prendere la mano per mille motivi (perché sai che potevi vendere di più e meglio, perché ce l’hai dentro…). Forse più che la censura potrebbero servire, dalla parte dei poveri, buone politiche sociali che evitino il fiorire di zone di degrado, e dalla parte dei ricchi buone politiche sociali che scardinino La società della Stanchezza: lo sto leggendo in questi giorni ed è illuminante, probabilmente a casa delle gang dei ricchi troveremo i genitori qui descritti”.
Andrea

“Anche io la penso come Lei e la pensava come Lei anche uno come Prince (un uomo che studio e di cui scrivo da tanti anni). Quando gli chiedevano perché si tenesse così distante da certi eccessi della cultura rap degli anni Novanta, lui rispondeva: ‘perché a forza di parlare di pistole finisci per usarle, prima o poi’. Uno che – pur essendo un americano del Midwest – non aveva armi in casa e non ne voleva intorno, perché ‘io sono un uomo di pace’. (Anche io: una donna di pace che detesta davvero la violenza, specie quella gratuita, specie nelle opere d’arte o di intrattenimento)”.
Maria Letizia Cerica

“Ho avuto la tua stessa reazione dopo essere diventato papà. E mio papà dopo essere diventato nonno. Non sono più riuscito per anni a vedere il mio genere preferito, i documentari. Ciclo delle stagioni; accoppiamento; lotta per la vita; i piccoli che soccombono (in proporzioni gigantesche) e i pochi che ce la fanno vanno avanti. Morsa allo stomaco nel vedere la piccola zebra, la piccola volpe o il piccolo fenicottero divorati/caduti nei dirupi/morti di stenti o di malattia. Se guardi le curve di mortalità di fine Ottocento, in Italia, c’è da rimanere sbigottiti. A me viene un po’ di magone a pensare a quante decine se non centinaia di migliaia di bambini morivano, per le cause più stupide, ogni anno nella sola Italia.
“La rappresentazione della violenza: è vero che è un grosso business, ma non è anche una forma di esorcismo? La nostra società come nessuna mai prima ha bandito la violenza. Il numero di morti ammazzati nelle società meno economicamente sviluppate è spaventoso, ai nostri occhi. Anche la nostra stessa società 50 o 60 anni fa. Forse, forse, il mitomane che ha ammazzato delle persone ispirandosi a un film li avrebbe ammazzati comunque. Per quel che vale: leggo Tex Willer da una vita e credo di non aver mai tirato un pugno a nessuno”.
Giovanni

“Io provo le medesime sensazioni ma, da tempo, semplicemente chiudo gli occhi, come facevo da bambino nelle scene della strega di Biancaneve al cinema parrocchiale. Rimedio semplicistico… Forse, ma perché rinunciare, ad esempio, alle splendide serie Fargo nate dall’omonimo film di Coen? Violenza, ma all’interno di belle trame, confezionate molto bene”.
Alex M

“Un lavoro di denuncia come Gomorra – nasce come una reportistica di uno stato di fatto o per meglio dire di un meta-stato quale è il mondo criminale – è giusto che venga spettacolarizzato in una serie televisiva? Al di là del fatto che ognuno scrive i suoi libri e poi è liberissimo di farci ciò che vuole, vendere diritti etc, così facendo non si snatura l’essenza del tuo scrivere? E qui torniamo, se vuoi, alla differenza tra arte e cronaca. La violenza fumettistica alla Tarantino appaga lo spettatore perché la riconosce come finzione e non c’è pericolo emulativo, mentre la violenza gomorristica della serie mi sa tanto che esalta lo spettatore. Chi nasce per fare arte è libero di rappresentarla come vuole ma chi nasce per educare attraverso i suoi libri e i suoi articoli dovrebbe rimanere fedele alla sua natura di ‘educatore’, se poi passi al lato oscuro perdi credibilità o fai grossi danni”.
Jacopo

“Capita anche a me, da qualche anno, di avere in uggia il macello (uggia, termine desueto, ma anche “desueto” è desueto). E capita sempre più spesso anche a me di guardare le nuvole e gli alberi, molto più stimolanti e forieri di pensieri positivi. Mi permetto solo di aggiungere il lago e il mare, purché con sguardo perso nell’orizzonte, senza esseri umani (umani?) nel raggio visivo. Sintomo dell’età?”
Paolo Taverna

“Qualche anno fa vidi il citato Jeeg: ricordo che mi piacque, e non mi pare che mi avesse particolarmente impressionato la violenza delle immagini. Ho visto Gomorra, sia il film sia la serie, in tempi più recenti, restando in questo caso assai turbato da ciò che vedevo. Forse il fenomeno è legato alla violenza paradossale del primo, che come quella di Tarantino è più scenografica che altro; e al realismo dei secondi. Fatto gli è che se, nella poca televisione che vedo, incrocio sangue e mortomicidi, cambio canale; era così mio babbo nei suoi ultimi anni, non ero così io in gioventù, non sono così i figli adolescenti della mia compagna, che infatti mi deridono sul punto. Ma credo che tutto nasca dalla gratuità e dalla saturazione: non credo nel Ministero della Paura, aborro la tv del dolore; il dolore e la violenza esistono nel mondo, ma ne subiamo una narrazione inflattiva della quale non sento davvero il bisogno”.
Andrea Ciccio Contini

“L’altra sera mi sono (ri)visto un film di guerra (La battaglia di Hacksaw Ridge) basato sulla storia vera di un obiettore di coscienza che decide comunque di arruolarsi per dare il suo contributo alla guerra contro i giapponesi, pur facendo voto di non imbracciare mai il fucile. A un certo punto è diventato il festival dello sbudellamento. Necessario? Forse sì per descrivere la cruda brutalità della guerra in contrasto con gli sforzi di questo soldato per portare in salvo i feriti, eppure a me è sembrato scorgervi un certo compiacimento ‘splatter’ del regista (Mel Gibson). L’unico che della rappresentazione dell’iper-violenza ha fatto un’arte (a mio avviso) è Quentin Tarantino: talmente esagerata, surreale e ironica, da diventare altra cosa. Ma non tutti sono Quentin Tarantino. Contrario alle censure, ad abbassare l’asticella a scopo preventivo, consapevole che la dicitura “V.M. 14 anni” non serva a tutelare menti deboli o chicchessia, possiamo concentrarci a coltivare gli strumenti per riconoscere la qualità, per distinguere intrattenimento e realtà, creatività e banalità, lecito e illecito, ecc. Molto di più non credo si possa fare…”.
Marco (56 anni)

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La rubrichetta Zanzare Mostruose ha illustri predecessori: ridere dei titoli di giornale che fanno ridere è attività antica. Un paio di settimane fa un lettore segnalava un libro degli anni Settanta, Strangolata con un portacenere, di Teresa Cremisi. Adesso Sergio da Modena rende omaggio alla rubrica di giochi vari “Wutki”, che apparve per una decina d’anni sul grande Linus di Oreste Del Buono. Wutki era lo pseudonimo di Sergio Morando, condirettore editoriale della Bompiani. Proprio da quella fonte si estrae questo piccolo gioiello vintage, indicato come proveniente dal Gazzettino Veneto del 1973:

UCCISO DA UN CAVALLO CON UN COLPO DI PISTOLA

Per una assoluta casualità (non vorrei essere accusato di “geographic shaming”) rimaniamo nel Nordest, cinquant’anni dopo. Claudia segnala, dal Messaggero Veneto, questo allarmante episodio:

ENTRA IN MUNICIPIO SENZA APPUNTAMENTO
E CON UNA FALCE MINACCIA L’ASSISTENTE SOCIALE

Se fosse entrato con la falce, ma regolare appuntamento, la posizione del reo si sarebbe alleggerita? Ancora dal Veneto, il Mattino di Padova ci fornisce un’ulteriore testimonianza dello stato molto precario dei mezzi pubblici nel nostro Paese. Segnala Gabriele:

SIR2 E SIR3, AVVIO PREVISTO NEL 2024
“IL TRAM ENTRERÀ IN FUNZIONE A PEZZI”

In genere la commissione selezionatrice (cioè io) non prende in considerazione i refusi, troppo frequenti e inflazionati. Faccio eccezione per questo, che Stefano ha trovato in una cronaca politica di Repubblica. Un modo festoso per salutarci.

IL M5S SCATENA L’INFERMO