Com’è la Biennale di Architettura

Quella di Venezia: meno circense e più concreta del solito, scrive Filippomaria Pontani, almeno in superficie

di Filippomaria Pontani


(VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)
(VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)

Molto era lecito attendersi dalla Biennale di Architettura del cileno Alejandro Aravena, fresco premio Pritzker e noto non già come ideatore di arditi grattacieli e costosissimi musei, bensì come attento rammendatore di periferie ed esperto di edilizia sociale, nonché inveterato fautore dell’idea di architettura come bene pubblico. Ed è un fatto che la mostra di quest’anno (a Venezia dal 28 maggio al 27 novembre) – che segue quella di Rem Koolhaas del 2014, più orientata sull’analisi degli elementi primari dell’architettura, dalle porte alle finestre ai muri (un analogo approccio, anche se in sedicesimo, era nella recente e godibile Architecture as Art all’Hangar Bicocca di Milano) – segni una rottura rispetto alle tante edizioni in cui il concettualismo di cervellotiche fantasie metteva il visitatore dinanzi a opere di fatto indistinguibili dalle installazioni della Biennale di arte contemporanea, o peggio a faraonici progetti che talora coprivano indicibili affari. Più che porre interrogativi, come David Chipperfield nel suo Common Ground del 2012, Aravena è tutto orientato sulle possibili soluzioni, che declina sulla falsariga di alcuni temi maggiori negli spazi dell’Arsenale e del Padiglione centrale ai Giardini.

Tra questi temi richiamo: l’impiego di materiali del luogo (il bambù in Messico e in Corea, il legno in Ecuador e Thailandia, il travertino in Cile…; per non parlare dell’architettura interamente “di riciclo” di Alexander Brodsky in Russia); il rispetto delle tradizioni costruttive locali (spiccano fra gli altri i casi di Fuyang in Cina e soprattutto le realizzazioni di Anupama Kundoo in India); il recupero e la rifunzionalizzazione di edifici abbandonati (Souto de Moura a Braga), ma anche di materiali di scarto (notevole il progetto di Hugon Kowalski per le discariche di Mumbai, ma già subito al principio il visitatore è accolto da un’ominosa stanza ingombrata dai montanti d’acciaio dismessi dalla Biennale d’Arte 2015); la centralità del progetto abitativo all’interno di una specifica comunità (dall’inurbamento dei pastori mongoli a Ulan Bator alle difficili periferie della Lisbona della crisi ridisegnate da Inês Lobo; ma interessante è anche il disegno di Alexander d’Hooghe per un mercato per gli immigrati a Bruxelles, e, in un altro contesto, le pratiche di confronto continuo con la comunità locale promosse dal Rural Studio in Alabama). Insomma, un trionfo di principi eticamente nobili, e un rigetto dell’architettura spettacolare e fine a se stessa (dall’Istituto Veneto, all’Accademia, occhieggia par contre una mostra dedicata alla compianta Zaha Hadid). 

Ora, non vi è dubbio che quanto si perde in spettacolarità in questa Biennale si guadagna invece nella pregnanza di molte delle soluzioni esposte, con alcune punte di assoluto interesse, come i diversi approcci al problema dei migranti (dai campi profughi del Sahara Occidentale alle soluzioni per i rifugiati in Germania proposte dallo Studio Bel di Berlino), le idee per agevolare l’accesso all’istruzione (le scuole “all’aperto” delle Ande e della foresta Amazzonica; la scuola galleggiante di Kunlé Adeyemi in Nigeria; i progetti di François Kéré in Burkina Faso o di Anna Heringer in Bangladesh; la rete di scuole di Luyanda Mpahlwa in Sudafrica), il fiorire di progetti cinesi volti a recuperare le tradizioni abitative indigene lungamente represse (per lo più a vantaggio dell’urbanizzazione forzata nei tristi palazzoni delle metropoli), o le mille sfide per il recupero del tessuto sociale e civile nelle città più problematiche del Sudamerica, dalle favelas di Asunción a quelle di Lima e Medellín. Non solo: colpisce vedere come diversi padiglioni nazionali si mantengano strettamente nel solco dei principi indicati dal curatore, a cominciare proprio da quello cinese (tutto dedicato alle pratiche abitative tradizionali, anziché – come accade di norma – ad avveniristiche proiezioni nel futuro), quello statunitense (che propone timidi tentativi di ricostruzione delle parti abbandonate di Detroit) e quello italiano (una selezione di 20 realizzazioni edilizie, urbanistiche e paesaggistiche in diversi luoghi della Penisola, tutte accomunate da un denominatore di aderenza all’ambiente e di uso comunitario); e in fondo anche Austria, Finlandia e Germania, con la loro viscerale e preoccupata attenzione al destino dei migranti, affrontano dinamiche urbane che hanno un risvolto socio-politico primario. Se meritano menzione, fra gli altri, anche lo studio della controversa storia di Manila nel padiglione filippino, e soprattutto la sofisticata e commovente riflessione sullo spazio abitativo dei malati di Alzheimer proposta dall’Irlanda, nulla però vale quanto il padiglione polacco, che per la prima volta dedica attenzione esclusiva ai volti e alle storie di chi materialmente costruisce gli edifici, dunque ai muratori, alle loro vite, alle loro condizioni di lavoro. 

Ma proprio alla luce di questa lodevole novità di principio della Biennale di Aravena, non si può non segnalare da un lato qualche stonatura, dall’altro un’occasione perduta. Le stonature cadenzano il percorso espositivo in modo talora sorprendente, e a tratti rischiano di compromettere la credibilità del filo conduttore: cosa c’entra con il discorso qui perseguito la faraonica – e nemmeno recentissima – ristrutturazione dello spazio di Punta della Dogana ad opera di Tadao Ando per conto del magnate francese Pinault (si arriva perfino a proporre un’apologia delle colonne con cui l’archistar giapponese voleva immortalare all’esterno il proprio passaggio, e che un’avveduta mobilitazione popolare fortunatamente seppe sventare)? Era proprio necessario dedicare un’immensa sala agli esperimenti luministici di Jean Nouvel per il controverso Louvre di Abu Dhabi? E perché celebrare in questo contesto certi progetti di habitués della Biennale – le contorsioni di Herzog & de Meuron, gli instabili cubetti di Richard Rogers, le incerte pianificazioni di Kazuyo Seijima in Giappone, l’aeroporto per droni in Rwanda di Norman Foster, o il centro visitatori di un museo sudanese di David Chipperfield? In più d’un caso la spiegazione esiste: chi voglia avere una precisa visione delle dinamiche finanziarie e d’interesse che si muovono alle spalle di quanto ci viene proposto (a cominciare dal ruolo della Rolex e di Deutsche Bank, profumati sponsor delle ultime Biennali di Architettura), farà bene a leggere le analisi di Paola Somma sul sito eddyburg, che si pongono in feroce antitesi rispetto al “capitalismo compassionevole” di questo tipo di mostre, e ne mettono in dubbio alcuni assunti fondamentali (per es. l’ineluttabilità dell’inurbamento di enormi masse umane, o la credibilità dell’”imperialismo umanitario”); comunque la si pensi, si potrà per esempio prendere con maggior cautela la gragnuola di statistiche e di analisi offerte dal padiglione speciale Conflicts of an Urban Age, dedicato al tumultuoso sviluppo urbano di alcune delle più grandi metropoli del mondo, scelte e presentate secondo criteri forse non del tutto limpidi. 

Infine, si può parlare di occasione perduta nella misura in cui le lunghe didascalie che accompagnano i progetti si intrattengono per lo più sempre sulle medesime questioni generali (non sono l’unico a sentire a tratti fastidio per una retorica pur teoricamente condivisibile), e raramente illustrano con chiarezza – al di là dei moventi ideologici – un fattore centrale, ovvero come le varie iniziative architettoniche e/o urbanistiche si siano concretamente sviluppate, quali soggetti pubblici e/o privati le abbiano promosse, ideate e finanziate, e quale sia o sia stata la ricaduta sulla società del luogo. È per esempio interessante contemplare un video sulla rinascita urbanistica e sociale di certi quartieri di Medellín e sulla creazione di uno spazio pubblico in loco, ma poi uno va alla Mostra del Cinema, vede Los nadie di Juan Sebastián Mesa (peraltro premiato nella Settimana Internazionale della Critica), e si domanda come stiano insieme le due cose. Tatiana Bilbao e altri lavorano sugli spazi vuoti di Città del Messico: ma qual è l’atteggiamento del potere (quello legittimo e quello de facto: si pensi alla Zona di Rodrigo Plá) dinanzi a simili iniziative? Lo stesso vale per es. per la riqualificazione di una pericolosa zona di Durban curata da Andrew Makin, o per le delicate esperienze di Al Borde in Ecuador. O ancora: in più d’un caso si mostrano i limiti dell’ “edilizia sostenibile” intesa in senso ortodosso (la sua scarsa durevolezza, messa in luce dagli svizzeri Christ & Gantebein; la sua inerente fragilità, studiata da Michael Braungart), ma non ci si spinge a mettere in questione il concetto stesso e le più profonde implicazioni del suo sbandieramento. 

Marginale, ma come sempre non del tutto assente, Venezia. Sull’importanza che le Biennali di Architettura hanno avuto per illustrare, legittimare e preparare l’assalto speculativo a Venezia, disponiamo ormai di una cronistoria precisa, ancora una volta a cura di Paola Somma (Mercanti in Fiera, Corte del Fóntego 2014). Quest’anno, se l’Istituto svedese propone la città lagunare come modello che va oltre la modernità (celebrando anzitutto il suo sapiente utilizzo del legno), d’altra parte i riflettori sono puntati su Marghera: “Up! Marghera on Stage” propone il Padiglione Venezia, sollecitando giovani architetti under35 a proporre soluzioni per il grande malato della Laguna, recentemente oggetto anche delle cure di Renzo Piano e del suo gruppo di giovani architetti. Un malato destinato – sotto gli auspici del primo sindaco di Venezia laureato in architettura – a risorgere come una “nuova Manhattan” sotto il peso di torri e grattacieli: in barba a tutti gli slogan caritatevoli.