Cosa pensava René Girard

Le idee dell'antropologo francese morto mercoledì, famoso per le sue riflessioni sul desiderio, l'imitazione, i conflitti e la violenza

di Arianna Marchente – @amarchente

DERRICK CEYRAC/AFP/Getty Images
DERRICK CEYRAC/AFP/Getty Images

René Girard, antropologo e filosofo francese di fama mondiale, è morto la notte del 4 novembre nella sua casa di Stanford, in California: aveva 91 anni. Girard nacque ad Avignone nel 1923, si formò alla scuola di Chartres di Parigi ma nel 1947 si trasferì negli Stati Uniti, dove vinse un dottorato con borsa di studio in storia e lo conseguì poi nel 1950. Insegnò in molte università americane di prestigio, ma la sua carriera accademica si svolse prevalentemente all’Università di Stanford, dove ricoprì la cattedra di letterature comparate per più di 30 anni e da dove è arrivata la prima notizia ufficiale della sua morte.

Girard negli anni ricevette moltissimi premi e riconoscimenti per l’innovazione del suo pensiero, così diverso da quello degli altri filosofi francesi a lui contemporanei da aver spesso portato la critica e i lettori a considerarlo un pensatore anticonformista: nel 2001 ricevette la laurea honoris causa in Lettere all’Università di Padova, mentre nel 2005 divenne uno dei 40 membri ufficiale dell’Académie francaise, una delle più antiche istituzioni culturali francesi. Cynthia Haven, dell’Università di Stanford, ha descritto così il lavoro di Girard e i capisaldi del suo pensiero:

In particolare, Girard era interessato alle cause del conflitto e della violenza, e al ruolo dell’imitazione nei comportamenti umani. I nostri desideri, ha scritto, non sono nostri: vogliamo quello che altri vogliono. Questi desideri mutuati da altri portano alla competizione e alla violenza. Diceva che il conflitto umano non è causato dalle nostre differenze, ma piuttosto dalle nostre somiglianze. Gli individui e le società scaricano la responsabilità e le colpe su degli outsider, dei capri espiatori, la cui eliminazione riconcilia gli antagonisti riportando l’unità.

La verità nei romanzi, ovvero il desiderio mimetico
Dopo aver ottenuto la cattedra di letteratura a Stanford, Girard iniziò a dedicarsi alla lettura di grandi opere letterarie utilizzando un approccio nuovo: la sua idea non era infatti cercare l’elemento peculiare e originale di ciascuna opera, bensì rilevarne dei tratti comuni, in grado di mettere in luce cosa trasversalmente avessero in comune non solo i personaggi letterari ma le persone in generale. Il risultato di questo lavoro, che passa attraverso la lettura di autori come Cervantes, Dante, Dostoevskij, Proust e Shakespeare, venne racchiuso in Menzogna romantica e verità romanzesca, pubblicato nel 1961 (Bompiani), dove compare per la prima volta la teoria del desiderio mimetico.

Secondo Girard i romanzi ci dicono che la molla fondamentale dei comportamenti umani è la natura mimetica, cioè imitativa, del desiderio. Le nostre azioni sono determinate di volta in volta da un desiderio che non è genuinamente nostro, ma è sempre di qualcun altro che noi imitiamo. La dinamica è apparentemente molto semplice: quando riconosciamo la realizzazione o la felicità in un’altra persona siamo istintivamente portati a desiderare anche noi quella felicità e quindi l’oggetto che l’ha resa possibile. Il desiderio, dice Girard per spiegarne in modo più chiaro il carattere imitativo, è contagioso. E questo aspetto permea ogni nostra azione: anche quando ci allontaniamo dal comportamento di qualcuno che non apprezziamo e non stimiamo, stiamo in realtà solo cercando di “non” fare come lui, quindi di “non imitarlo”: siamo sempre nell’ordine, seppur negativo, dell’imitazione.

La menzogna romantica, ovvero la libertà e la struttura triangolare del desiderio
Secondo Girard quindi il desiderio che ci muove non è mai un rapporto diretto tra soggetto desiderante e oggetto desiderato, ma una relazione a tre, mediata. Il soggetto (prima parte della relazione) desidera sempre un oggetto (seconda parte della relazione) attraverso la mediazione di un modello, cioè dell’altro che si sta imitando (terza parte della relazione). La menzogna romantica di cui parla Girard consiste nella favola moderna della libertà, nell’incapacità di accorgersi di questa mediazione: siamo convinti che i desideri ci appartengano in modo genuino, li crediamo “nostri”, ma in realtà appartengono a un modello che non riusciamo a vedere. Questo non significa che l’uomo non sia libero: il desiderio non è libero, ma il modo in cui poi noi riusciamo a raggiungere l’oggetto desiderato è creativo e implica in un certo senso una forma di libertà.

Dal triangolo al cerchio: la teoria del capro espiatorio
La struttura triangolare del desiderio genera spesso rivalità e conflitto. La ragione è semplice: se siamo in due (o anche più di due, perché il mimetismo non ha limiti) a desiderare la stessa cosa, diventiamo automaticamente rivali. Ma a essere imitata è anche la stessa rivalità, che si diffonde così in modo circolare arrivando a coinvolgere tutta la società. L’oggetto della contesa perde quasi di valore e viene sostituito dal desiderio di prevaricazione tipico del conflitto mimetico, che si diffonde a catena e si trasforma in antagonismo generale. L’unico modo per limitare questa violenza e i suoi effetti è individuare un colpevole determinato, una vittima, da distruggere per riportare la quiete.

Questa è la teoria del capro espiatorio: la folla sceglie arbitrariamente un unico individuo ritenuto responsabile e lo annienta. La vittima finisce così per ricoprire due funzioni: da una parte viene riconosciuta come causa della violenza iniziale e dall’altra come potenza miracolosa che ha fatto cessare i conflitti, viene cioè sacralizzata. La vittima diviene un dio: questa è per Girard la genesi dei fenomeni religiosi. Tra tutti i fenomeni religiosi il cristianesimo è l’unico in grado di interrompere questo meccanismo perché si basa interamente sul sacrificio di un innocente, Cristo, e svela così ciò che fino a prima era rimasto nascosto: la dinamica appunto del capro espiatorio.