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  • Venerdì 26 settembre 2014

Chi c’è dietro allo Stato Islamico?

È una domanda che circola molto e a cui di solito vengono date risposte confuse o complottiste, ma è sensata e ha soprattutto una risposta: fanno da soli

di Elena Zacchetti – @elenazacchetti

(Militant website via AP, File)
(Militant website via AP, File)

Lo Stato Islamico (ISIS) viene definito da parecchio tempo il “gruppo terrorista più ricco della storia”. La rapida conquista di territori in Siria e Iraq ha spinto molti giornalisti ed esperti a chiedersi in che modo i miliziani dell’ISIS siano riusciti a finanziare le loro attività: cioè come abbiano fatto a conquistare, governare ed amministrare – in un tempo relativamente molto breve – un territorio grande all’incirca come il Regno Unito e che comprende tra gli otto e i dieci milioni di persone.

Molti hanno cominciato a chiedersi anche “chi ci fosse dietro” all’ISIS, anche in modo un po’ cospirazionista, e quali fossero gli stati che gli hanno garantito appoggio finanziario; qualcuno ha anche sostenuto – in linea con le posizioni del governo iraniano – che dietro all’ascesa dell’ISIS ci fossero gli Stati Uniti. In realtà molte delle ipotesi circolate non sono state finora verificate da fonti credibili. Quello che si sa è che l’ISIS è un gruppo che si finanzia per la maggior parte con le risorse che ricava dal territorio che controlla, e in misura minore con donazioni private. A oggi non c’è alcuno stato del Medio Oriente che ne sostenga l’azione, almeno apertamente; e non lo fa nemmeno l’organizzazione terroristica più forte e conosciuta, al Qaida. L’ISIS ha sviluppato sistemi di finanziamento “autonomi” e innovativi, che gli hanno permesso di imporsi in alcune zone dell’Iraq e della Siria, due stati con dei governi che per diverse ragioni hanno perso il controllo del loro territorio. E soprattutto, come ha scritto il Washington Post, la sua economia è altamente differenziata: significa che se una fonte di guadagni viene annullata, il gruppo può contare sulle altre.

Una premessa
Il sistema di finanziamento dei gruppi terroristi non è più lo stesso dei tempi di Osama bin Laden. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti e i loro alleati riuscirono a smantellare il sistema di finanziamento usato dalla leadership di al Qaida, basato soprattutto su donazioni esterne: lo stesso Osama bin Laden si lamentò a un certo punto della mancanza di fondi nelle casse dell’organizzazione. Da allora le cose per al Qaida, e specialmente per i suoi gruppi affiliati, hanno cominciato a cambiare: oggi i nuovi sistemi di finanziamento si basano sempre più su fondi raccolti localmente e meno su finanziamenti esterni (che comunque sono ancora presenti). Per esempio al Qaida nel Magreb Islamico (AQIM) – gruppo da cui mesi fa si sono staccati i miliziani algerini responsabili della decapitazione del cittadino francese Hervé Gourdel – basa le sue entrate soprattutto su rapimenti e successive richieste di riscatti, e traffici illegali – per esempio di opere d’arte – che garantiscono profitti per decine di milioni di dollari. Uno schema simile – basato sullo sfruttamento di risorse locali – è stato adottato anche dall’ISIS, ma con risultati notevolmente superiori: basti pensare che – stando ai dati di Rand Corporation – le entrate totali dell’ISIS sono passate da poco meno di 1 milione di dollari al mese alla fine del 2008/inizio del 2009, a 1,3 milioni di dollari al giorno nel 2014.

Quali sono le spese che deve sostenere l’ISIS?
Oltre ai costi di essere in guerra e a quelli necessari per l’organizzazione di attentati terroristici – come quello di Parigi – lo Stato Islamico ha diverse spese relative alle sue attività di governo nel territorio del Califfato Islamico: per esempio gestisce le scuole, la polizia religiosa, le mense e il sistema giudiziario basato sulla sharia e anche un’autorità per la protezione del consumatore, ha scritto il Washington Post. Paga i suoi miliziani circa 400 dollari al mese, una cifra superiore a quella offerta dal governo iracheno ai suoi dipendenti. Ha anche stabilito una banca centrale per la sua moneta, anche se di fatto usa spesso le monete locali, come il dinaro.

Di che tipo sono i finanziamenti esterni all’IS?
Da diverso tempo alcuni benefattori e cittadini comuni dei paesi arabi sunniti del Golfo Persico – tra cui Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait – finanziano i gruppi che combattono contro il regime sciita di Bashar al Assad, alcuni dei quali estremisti e considerati “terroristi” dai paesi occidentali. I finanziamenti all’ISIS non provengono comunque dai governi del Golfo, ma da privati che spesso usano legislazioni piuttosto morbide per far arrivare il denaro in Siria. In generale, non stupisce più di tanto che questi paesi mantengano una certa flessibilità riguardo il finanziamento di gruppi esterni, anche se terroristi: nelle logiche della politica mediorientale degli ultimi trent’anni, i primi nemici dei paesi sunniti sono stati Iran e Siria, paesi governati da sciiti. Insomma: dove serve colpire il potere sciita – come nel caso del regime di Bashar al Assad – gli aiuti in passato sono stati concessi senza troppe prudenze, anche se non a qualsiasi costo. E l’ISIS in questo senso è un’eccezione, visto che tutti i paesi arabi sunniti si oppongono al progetto di creazione di un Califfato Islamico.

Come dimostra uno studio del Washington Institute for Near East Policy, il paese da cui provengono i maggiori finanziamenti all’ISIS è il Kuwait, seguito dal Qatar e dall’Arabia Saudita. Non è chiaro a quanto ammontino queste donazioni, ma sembra che siano una piccola parte delle finanze totali del gruppo. I governi di questi tre paesi, comunque, si sono schierati a favore della grande coalizione guidata dagli Stati Uniti: i sauditi hanno anche partecipato ai recenti attacchi aerei in Siria, mentre il Qatar ha approvato una nuova legge che vieta le donazioni verso l’ISIS. La situazione è resa ancora più complicata dal sistema articolato “di governo” che i miliziani dello Stato Islamico hanno messo in piedi nei territori del Califfato, che include una struttura sociale simile a quella che hanno creato Hezbollah nel sud del Libano e Hamas nella Striscia di Gaza. Questo sistema, a suo modo, fornisce diversi servizi alla popolazione. Il risultato è che differenziare i finanziamenti al terrorismo da quelli per il sostegno alla popolazione locale colpita dal conflitto non è facile. E si rischia che gli uni finiscano nell’ingrossare le casse degli altri.

Ma quindi: come si finanzia l’IS?
Per molti mesi le finanze dello Stato Islamico si sono basate sui ricavi di operazioni criminali, di rapine e di vendita del greggio estratto da pozzi petroliferi iracheni e siriani. Più di recente, ha scritto il New York Times, i miliziani dello Stato Islamico hanno avviato una vera e propria economia di guerra: l’ISIS controlla magazzini e raffinerie, e ha messo in piedi un sistema molto articolato di estorsioni ai danni di imprenditori e di vendita di ex-proprietà governative ed equipaggiamenti militari americani (tra cui anche gli Humvee, veicoli militari dell’esercito americano sequestrati dalle basi militari irachene e forniti dagli Stati Uniti al governo di Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein). L’ISIS usa anche le nuove tecnologie e i social media per raccogliere le donazioni di singoli individui: la rivista Al-Naba – una pubblicazione gestita dall’IS – tiene informati i donatori sui progressi delle operazioni militari, mentre su Twitter è possibile vedere le foto degli equipaggiamenti militari e degli avanzamenti territoriali del gruppo.

Stando allo studio del Washington Institute for Near East Policy e ad altre analisi di giornalisti ed esperti di terrorismo, la fonte principale di finanziamento dell’ISIS è lo sfruttamento di pozzi petroliferi e raffinerie (la maggior parte si trovano nell’est della Siria). Secondo alcune stime piuttosto approssimative, la vendita di petrolio garantirebbe all’ISIS un profitto di circa 1,5 milioni di dollari al giorno. La maggior parte del greggio è smistato attraverso l’Iraq e un corridoio di terra nel sud della Turchia, e per diverso tempo si è detto che una parte fosse venduto allo stesso governo siriano, a cui l’ISIS aveva sottratto i giacimenti (non è un’ipotesi così assurda: un’inchiesta del Financial Times ha dimostrato di recente che ISIS e governo siriano hanno messo in piedi delle specie di joint venture per la gestione di alcune centrali elettriche a gas). Nonostante le pressioni degli Stati Uniti, per ora il governo turco non ha avuto la capacità o la volontà di esercitare un controllo più fermo sul confine, bloccando il passaggio di risorse, di armi e anche di uomini. Le installazioni petrolifere sono state riconosciute anche dall’amministrazione di Obama come la principale fonte di sostentamento dell’ISIS: più di recente quando si parla di indebolire l’ISIS ci si riferisce spesso all’ipotesi di colpire i giacimenti petroliferi e i traffici di petrolio (ma ci sono delle controindicazioni anche a perseguire questa strategia, ha spiegato il Financial Times).

L’ISIS ha ottenuto anche circa mezzo miliardo di dollari sequestrando i contanti tenuti nelle banche nell’Iraq settentrionale e occidentale, durante la rapida avanzata dell’estate del 2014. Altre fonti di guadagno sono: la rivendita di armi e mezzi militari americani ottenuti dalla conquista di basi militari irachene; la vendita o l’affitto di case di persone che sono state uccise o che hanno lasciato quel territorio dopo l’arrivo dell’ISIS; i contanti in valute forti portati dai cosiddetti “foreign fighters” che arrivati nel Califfato Islamico per combattere; la vendita di orzo e grano coltivati nelle terre controllate dall’ISIS (secondo Thomson Reuters se orzo e grano fossero venduti al mercato nero anche solo al 50 per cento del loro valore, potrebbero generare più di 200 dollari annui di profitto); la vendita di solfato, solfuro e cemento (secondo Thomson Reuters se acido solforico e acido fosforico fossero venduti al mercato nero anche solo al 50 per cento del loro valore, potrebbero generare più di 300 dollari annui di profitto); e il traffico di esseri umani, soprattutto la vendita ai mercati delle schiave di donne.

Come hanno scritto in diversi, se consideriamo l’ISIS “stato” si può dire che sia uno stato povero, con un budget che si avvicina a quello dell’Afghanistan o della Repubblica Democratica del Congo. Se lo si considera invece come un’organizzazione terroristica, risulta essere in salute e con un’economia molto diversificata.

Ci sono gli Stati Uniti dietro all’ISIS?
No. Il governo americano non ha mai finanziato i miliziani dello Stato Islamico, nemmeno quando il gruppo si chiamava Stato Islamico nella Siria e nel Levante (ISIS) e nemmeno quando era affiliato ad al Qaida. Una delle preoccupazioni più grandi dell’amministrazione Obama rispetto all’idea di finanziare e armare i ribelli siriani è sempre stato proprio il rischio, anche in tempi non sospetti, che questo denaro e queste armi finissero tra le mani dei gruppi più estremisti, tra cui l’ISIS e il Fronte al Nusra, unico rappresentante riconosciuto di al Qaida in Siria. Il primo piano statunitense di sostegno ai ribelli siriani – quello segreto sviluppato dalla CIA usando delle basi in Giordania – ci mise mesi per dare i primi risultati, proprio per le precauzioni americane nel “mappare” per quanto possibile il movimento delle loro armi una volta entrate in Siria.