• Mondo
  • Venerdì 9 maggio 2014

La cultura del ministro della Cultura russo

L'università di Venezia sta nominando "membro onorario" l'ispiratore di politiche culturali russe scioviniste e persecutorie del dissenso

di Filippomaria Pontani

A picture taken on October 15, 2013, shows Russian Culture Minister Vladimir Medinsky speaking during his interview with AFP at his office in Moscow. AFP PHOTO / ALEXANDER NEMENOV (Photo credit should read ALEXANDER NEMENOV/AFP/Getty Images)
A picture taken on October 15, 2013, shows Russian Culture Minister Vladimir Medinsky speaking during his interview with AFP at his office in Moscow. AFP PHOTO / ALEXANDER NEMENOV (Photo credit should read ALEXANDER NEMENOV/AFP/Getty Images)

Aggiornamento di lunedì 12 maggio – L’agenzia ANSA ha riportato che la visita di oggi del ministro russo Vladimir Medinskij all’Università Ca’ Foscari – durante la quale avrebbe dovuto ricevere il premio “Ca’ Foscari Honorary Fellowship” – è stata annullata, citando una fonte dell’università secondo la quale il ministro ha avuto «improvvisi impegni istituzionali». La pagina dell’evento è ancora presente sul sito dell’università.

***

Uno dei capisaldi dell’orientamento nazionalistico e dichiaratamente anti-europeo di Vladimir Putin sta nella creazione di una politica culturale di Stato volta a creare coesione e consenso fra i cittadini, e a controbattere il relativismo “illuminista” che sta sfiancando le civiltà occidentali e le loro “identités malheureuses”. In questo senso, il documento recentemente emanato dal Ministero per la cultura della Federazione russa (lo leggo nella traduzione di Giulia de Florio ed Elena Freda Piredda) è di estremo interesse, in quanto stabilisce un “codice culturale” di valori, idee e punti di vista dominanti che viene considerato “la norma comunemente accettata per l’autoidentificazione delle persone”. L’obiettivo del governo è quello di formare nei cittadini “una concezione del mondo, una coscienza sociale e norme di comportamento che rafforzano la nazione”: per far ciò lo Stato deve “incoraggiare e sviluppare solo gli orientamenti culturali e le sfere culturali locali che corrispondono al sistema di valori accettato in questo Stato”.

Insomma, “la Russia non è l’Europa”, e anzi addita la deriva morale e civile dell’identità dei Paesi occidentali come un pericolo da cui tenersi alla larga, sposando le tesi conservatrici della difesa dei valori tradizionali e rifiutando con sdegno i principi del multiculturalismo e della tolleranza. Le ricerche scientifiche, in particolare, devono essere “finalizzate a individuare il contenuto del sistema di valori tradizionale per la Russia”, mentre le produzioni artistiche “inammissibili dal punto di vista del sistema di valori tradizionale per la Russia” andranno scoraggiate, e “lo Stato negherà il proprio appoggio a persone e comunità che dimostrano un comportamento che contraddice le norme culturali”, dichiarandosi pronto ad “adottare le conseguenti misure repressive” nel caso in cui venga infranta la legge vigente (il caso delle Pussy Riot, declassate a semplici hooligans da strapazzo, ne è un esempio perfetto).

Che a questi principi, nel corso della storia, si siano spesso ispirati i governanti di una realtà così vasta ed eterogenea come la Russia, è cosa nota; né s’intende qui trinciare giudizi semplicistici, in quanto l’analisi di simili direttive politiche – al di là dell’istintivo ribrezzo che forse ingenerano in alcuni – richiederebbe una contestualizzazione più approfondita. Gli è che gli effetti pratici di questa nuova ventata nazionalistica sono evidenti sul campo ormai da diversi anni, da ultimo sul delicato terreno ucraino. Non è un caso che il vate e l’alfiere della politica culturale testè tratteggiata, il 41enne ministro Vladimir Medinskij, sia corso qualche giorno fa ad illustrare a Putin in persona lo stato del patrimonio culturale della Crimea, e le azioni da intraprendere per “recuperarlo” e preservarlo dopo gli ultimi eventi.

Medinskij, fiero anticomunista e già deputato di “Russia Unita”, è un uomo che sa il fatto suo. Non solo ribadisce le sue tesi anti-occidentali pubblicamente e a più riprese, ma rincara la dose argomentando che, come al tempo dell’URSS, la Russia dovrebbe drasticamente limitare il numero dei film importati da Hollywood, e segnalando che Stalin era molto abile nella diffusione dell’ideologia e nel lavaggio del cervello. In qualità di storico (si ricordano i suoi libri tesi a sfidare i “miti” anti-russi, sia sul piano della ricostruzione storica sia su quello dell’indole nazionale) ha argomentato poi che il patto Molotov-Ribbentrop fu un grande evento per l’Europa (l’Unione Sovietica, a suo dire, non avrebbe infatti mai invaso o aggredito gli Stati Baltici o la Polonia o l’Ucraina nel ’39-’40: li avrebbe semplicemente “incorporati”), che Ivan il Terribile non era poi così duro, e che certamente Tchaikovski non poteva essere un omosessuale.

Alcuni intellettuali d’opposizione considerano Medinskij come un piccolo Goebbels, altri hanno denunciato estesi plagi nella sua tesi di dottorato, e perfino diversi membri dell’Accademia delle Scienze di Mosca si sono inquietati, in una lettera aperta, delle sue intenzioni dirigiste in materia di politica culturale . All’altro capo dell’oceano, la New York Review of Books in un lungo e preoccupante articolo parla di lui come un possibile ex-membro dei servizi segreti, e ora come il più importante “Putin’s propaganda man”. Ma l’uomo non si fa intimorire: dopo che l’università presso la quale insegna ha cacciato il docente Andreij Zubov, non allineato sull’aggressione all’Ucraina (Medinskij è nato in territorio oggi ucraino), pochi giorni fa egli stesso, in qualità di ministro, ha licenziato in tronco il direttore del Padiglione russo della Biennale di Venezia (l’apprezzato Grigorij Revzin), reo di aver scritto un articolo critico della politica estera putiniana.

Ma non staremmo parlando di tutto questo se, proprio a Venezia, Medinskij non stesse per ricevere (il 12 maggio) dal Senato Accademico dell’Università la “Ca’ Foscari Honorary Fellowship“, alto riconoscimento già tributato negli anni scorsi a personaggi quanto meno controversi. Che un’università intenda onorare solennemente l’artefice di una politica culturale di questo tipo, tanto più in un momento politicamente così delicato, potrebbe avere dell’incredibile: i maligni sospettano che si tratti di un segno di gratitudine nei confronti di quell’oligarchia putiniana che (sotto gli auspici del rettore uscente Carlo Carraro, uomo dell’ENI molto legato a Paolo Scaroni) ha ampiamente frequentato l’Ateneo negli ultimi tempi, dalle cerimonie in onore di Svetlana Medvedeva alle mostre d’arte russa create grazie al sostegno di ricchi collezionisti come Alexander Reznikov o Andreij Filatov (potentissimo patron di N-Trans, l’azienda del trasporto che ha promosso fra l’altro la distruzione della foresta di Khimki, il quale dedica particolare attenzione all’arte del periodo sovietico). A Ca’ Foscari, un ateneo già duramente provato dalla trista vertenza sulla cessione dei palazzi storici , molti docenti allibiti e indignati attendono con ansia l’imminente elezione della nuova dirigenza, nella speranza che non si debba più assistere in futuro a così deprimenti spettacoli di svendita morale e materiale.