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  • Lunedì 11 marzo 2013

Teoria e tecnica della “colonna destra”

Un nuovo libro con l'analisi più completa e aggiornata delle testate online italiane, e un'attenta spiegazione del "boxino morboso"

di Alessandro Gazoia

È uscito per l’editore MinimumFax un ebook che è l’analisi più aggiornata e completa del quadro delle testate giornalistiche online italiane, “Il web e l’arte della manutenzione della notizia“, scritto da Alessandro Gazoia, titolare del blog Jumpinshark. Tra i temi trattati – tra cui una parte dedicata anche al Post, mentre qui si può leggere l’introduzione – c’è una riflessione sull’uso da parte dei siti dei due maggiori quotidiani italiani della parte di contenuti più “leggeri”, la cosiddetta “colonna destra”, o “boxino morboso“.

I rapporti di forza tra i maggiori quotidiani cartacei vengono, con qualche aggiustamento, mantenuti anche per le versioni web. Il Corriere, Repubblica e La Gazzetta dello Sport sono ai primi posti pure su internet. Secondo i dati Audiweb di ottobre 2012 visti nella tabella 1 del primo capitolo, le versioni online delle tre testate hanno, rispettivamente e arrotondando, 1,5, 1,3 e 0,6 milioni di utenti unici al giorno. Tenendo comunque distinto il caso della Gazzetta e in generale dei quotidiani sportivi, individuiamo nel giornalismo digitale italiano un sicuro dominio di Corriere e Repubblica. La Stampa sul web, nonostante il rinnovato impegno online, nell’ultimo trimestre 2012 ha meno di un terzo dei lettori di Repubblica; in questo e in numerosi altri casi i rapporti di forza del cartaceo non solo sono confermati ma persino «estremizzati», come dimostrano i dati Ads, Accertamento Diffusione Stampa del novembre 2012 che indicano per Repubblica 525.874 copie di tiratura con diffusione media di 393.830 e per la Stampa 339.498 di tiratura e 243.287 di diffusione. Un tale sbilanciamento tra carta e web si spiega col ritardo di vari giornali nazionali (e macroregionali) nel perseguire una robusta strategia digitale, condizione che ha consentito alle due principali testate di imporsi senza veri antagonisti tradizionali e consolidarsi in un regime di duopolio.

 Tabella 1 – Dati Audiweb per Repubblica, Corriere, la Stampa

Repubblica e Corriere hanno una divisione della home page piuttosto simile, favorendo sulla colonna (il termine è stato trasportato naturalmente dal cartaceo al digitale) di sinistra il «giornalismo serio» e su quella di destra il contenuto acchiappaclic, chiamato anche, enfatizzando le diverse caratteristiche, «fritto misto», «boxino-morboso», «strano-ma-vero».[11] Una colonna di destra ripiena di Nicole Minetti in costume al mare (d’estate a Ibiza), cavalli con i jeans, cavalli che sorridono con i jeans, madonne piangenti (secondo alcuni non verificati resoconti), memorabili gol, memorabili gol sbagliati, video virali su YouTube, tatuaggi di qualsiasi tipo e foggia, Rihanna mentre fa una qualsiasi cosa (compreso un tatuaggio), clamorosi quasigol e clamorosi autogol, Fabrizio Corona in canottiera e sigaretta, favolose scarpe delle star, pettinature folli delle star, raccolte dei tweet folli e favolosi sulle scarpe e le pettinature delle star, canestri spettacolari della NBA, Raffaella Fico e Mario Balotelli litigati, gnu divorati da pitoni, Mario Balotelli e Raffaella Fico riappacificati, gnu divorati da leoni, Nicole Minetti in costume al mare (d’inverno a Miami). Il contenuto di solito è proposto in forma di foto- o video-notizia con breve testo a corredo o direttamente come galleria fotografica con minime didascalie.

Analizziamo nel dettaglio un singolo boxino-morboso: l’11 agosto 2012, dopo quattro giorni di onorato servizio, scompariva infine dalla home page del Corriere la fotonotizia/galleria fotografica sul «sirenetto», ossia «Vittorio Cecchi Gori in spiaggia a Sabaudia con la fidanzata Filly (Olycom)». Ho appena riportato il testo integrale del servizio e devo chiarire che Olycom non si riferisce alla donna priva di cognome ma all’agenzia fornitrice delle immagini. La Stampa, uno dei primi inseguitori di Corriere e Repubblica e uno dei migliori imitatori delle loro strategie editoriali, pubblica una fotonotizia simile («Cecchi Gori con la compagna in topless»), fornendo maggiori informazioni: Filly è il diminutivo della ballerina trentacinquenne Filomena Azzarita, e Cecchi Gori con questa signora «bionda e dalle forme prosperose si consola» del suo «grande amore» passato Valeria Marini (definita tra virgolette «Valeriona nazionale»).

Un giovane nato dopo il 1990 facilmente ignorerà tutto di Cecchi Gori, e anche della quarantacinquenne Marini, vedendo nella galleria fotografica solo un uomo anziano, fuori forma e con grande pancia, in compagnia di una donna che ha la metà dei suoi anni, in forma migliore e con grande seno. Un devoto di Paolo Limiti saprebbe invece raccontare tutte le peripezie dell’un tempo grande produttore e della sua precedente compagna, e forse azzarderebbe un paragone con Silvio Berlusconi, il vecchio socio d’affari che, secondo i più psicologizzanti e autorevoli commentatori, continua a ricercare in giovani bellezze una nuova copia di Veronica Lario (e in questi primi giorni del 2013 dominano su tutti i quotidiani online le «foto ufficiali» di Francesca Pascale nel suo «debutto ufficiale ad Arcore»). Il decaduto Cecchi Gori costituisce anzi, mediaticamente, la versione hard-discount e trash del già non raffinatissimo, sebbene di certo ricco, reality su Berlusconi, Lario, Minetti, Ruby, Pascale, ecc. Anche per questo, se non soprattutto per questo, ancora oggi vi sono fotografi che riprendono Cecchi Gori al mare e riescono a vendere il servizio ai maggiori quotidiani e settimanali italiani.

Qui non voglio produrre, usando disonestamente la frivola leva agostana, una condanna sdegnata del giornalismo di gossip: il «sirenetto» interessa tanto per la sua collocazione all’interno di un importante giornale digitale quanto per il contenuto, e quest’ultimo va anche valutato rispetto al genere d’appartenenza. Attualmente il Corriere della Sera propone nella parte alta e nobile della home una singola notizia (o macronotizia, con i vari contributi raggruppati) in evidenza, affiancata sulla destra da un contenuto visuale (vignetta, video, foto) spesso irrelato, spesso simpatico e curioso. Scorrendo il layout incontriamo poi una colonna sinistra larga e due colonne a destra più strette. Nella colonna di sinistra trovano posto le «notizie serie», con un ordinamento verticale che riproduce in qualche modo la gerarchia delle pagine interne e le sezioni del cartaceo (in aggiunta al menu di navigazione verticale), anche se, naturalmente, qui il processo di definizione delle posizioni è continuo e non limitato a una volta al giorno. Il tema sportivo-giudiziario «Calcioscommesse: dieci mesi a Conte» nella mattina del 10 agosto 2012 era in evidenza, nel pomeriggio è progressivamente calato e alle dodici del giorno seguente è finito sotto un servizio estivo sui «trucchi per non farsi amici e tener libero il posto vicino» in bus e treno.

Ancora più in basso nella home di Corriere.it incontriamo una sezione di video «strano-ma-vero» e sotto di essa si mantengono solo la colonna di sinistra e la prima di destra, con pagina che diventa quindi più stretta. Una notizia della colonna principale, come il vademecum dell’ostilità in bus e treno, può finire nella prima colonna di destra, e anche il processo inverso è consentito, anzi frequente, mentre più raro è il salto dalla prima alla terza colonna, dove si accampano i «boxini morbosi», le concessioni che il giornalismo generalista di qualità fa al web per avere più pagine viste e quindi (secondo l’interpretazione favorita) migliori e maggiori occasioni di inserzioni pubblicitarie. Ma con un contrasto non piccolo nella terza colonna si trovano pure strumenti come il meteo, i grafici di Borsa e i dizionari, ancora una volta a testimonianza di come questa home sia cresciuta a strati, per aggiunte progressive di blocchi di contenuto e forse senza un progetto grafico-editoriale forte e rigoroso come quello del cartaceo. Senza un’idea precisa di come debba essere un quotidiano online in Italia, con il verbo dovere inteso sia in senso morale, «come dovrebbe proporsi un grande giornale sul web», sia in senso materiale, «come deve fare un giornale per sopravvivere sul mercato digitale». Nella parte finale del 2012 si è così aggiunta nella zona alta della seconda colonna di destra del Corriere una nuova sezione dedicata ai «blog multiautore», che ha letteralmente spinto ancora più in basso i boxini-morbosi. Sirenetti e sirenette in questi mesi invernali trasferitisi in massa a Miami stanno ora giusto a qualche pixel di distanza da blog d’impegno sociale come Invisibili, che già nel nome, cito dall’autodescrizione, «denuncia una condizione nella quale troppo spesso vive chi ha a che fare con una disabilità» ed è al momento gestito dai giornalisti Claudio Arrigoni, Simone Fanti e Franco Bomprezzi (gli ultimi due vivono in prima persona la detta condizione di «invisibilità»).

Il mercato italiano non ha mai avuto una divisione comparabile a quello inglese, dove sono chiaramente distinguibili i «quotidiani seri» alla Times e Guardian (broadsheet) e gli «scandalistici» alla Daily Mail e Sun (tabloid), e per solo apparente paradosso la nostra stampa, tradizionalmente considerata elitaria per pubblico e contenuti, ha sempre mischiato alto e basso.[12] Come scrive, con qualche eccesso, Christian Rocca («Perché in Italia l’Huffington Post non può sfondare») in relazione al lancio della nuova testata diretta da Lucia Annunziata:

Il grande successo dell’Huffington Post originale si deve all’introduzione nel panorama informativo americano della commistione tra alto e basso, della contaminazione tra politica e gossip, dell’abbattimento del sacro muro di divisione tra fatti e opinioni. Da noi tutto questo c’è già, mescolato, frullato, digerito. Lo fanno quasi tutti i grandi giornali, da ben prima che nascessero i blog. Tranne qualche rara eccezione, non c’è differenza tra quotidiani di qualità e tabloid, a differenza di quanto accade nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Noi abbiamo un solo tipo di giornale. Un giornale con la pretesa di essere di qualità malgrado i titoli gridati, il pathos scandalistico e i rumors da portineria. Un giornale conquistato dalla tabloidizzazione, con poca autorevolezza, di scarsa affidabilità. Siamo il Paese di Satyricon, non del Pulitzer.

Meno polemicamente e a integrazione del discorso propongo come esempio la free press, il cui successo nei primi anni Duemila si spiega anche con lo spazio lasciato libero dai grandi quotidiani per un prodotto facile e non solo locale. Un giornale che rifiutava il miscuglio di alto e basso, ponendosi come pianamente informativo e onestamente basso in tutti i suoi contenuti. Senza alcuna vetta cui aspirare e senza alcun fondo da toccare. Fondo è un riferimento mobile, che la stampa italiana «di qualità» ha modificato molte volte nel corso degli anni. Un caso notissimo, riferito ai settimanali, è la guerra dei nudi tra L’Espresso e Panorama negli anni Novanta, quando un seno scoperto in copertina, sprezzante del ridicolo e della connessione, poteva illustrare qualsiasi cosa, dall’ultima tendenza di stile all’ennesima crisi di governo, dalle vacanze intelligenti degli italiani alla preoccupante situazione economica (i titoli alla «siamo rimasti in mutande» aiutavano). Nel campo dei quotidiani online accade qualcosa di simile con il boxino-morboso e pare si sia lontani da un comune disarmo, e per un Huffington Post Italia che, almeno nelle parole del direttore Lucia Annunziata e nonostante l’esempio della casa madre americana chiarito sopra da Rocca, rifiuta il voyeurismo vi sono decine di concorrenti di Repubblica e Corriere che spingono sull’acceleratore per vincere nella gara verso il fondo. Nell’opinione che, degradando a sufficienza il concetto di «notiziabilità» e abbondando in stranezze e nudità, si raggiunga un pubblico più ampio.

Chi apra l’edizione web dei giornali più autorevoli di molti altri paesi non troverà la nostra colonna di destra (intendendo ora il termine non in senso strettamente tipografico). Il New York Times, il Washington Post, il Guardian non offrono quei contenuti e quelle forme, anche se non sono certo privi di articoli sul mondo dello spettacolo, lo sport, gli animali e le vacanze. Il Guardian dedica spesso la foto grande in alto nella home page al calcio o ad altro evento sportivo di rilievo e anzi, impegnato com’è nella ricerca di nuove vie per finanziare il suo progetto giornalistico ad «accesso libero» (open access), ha persino un sito d’incontri per trovare l’anima gemella (Soulmates), ma in primo luogo distingue chiaramente tra iniziative collaterali e giornalismo, in secondo luogo affronta ogni contenuto mantenendo alti standard di professionismo e cura, in terzo luogo non supera mai certe soglie. Il servizio automatico nella colonna di destra per ogni giornata di shopping di Nicole Minetti o giro in moto di Fabrizio Corona non è né previsto né consentito (e non perché manchino accettabili cloni britannici di quei personaggi, sebbene i nostri abbiano – diciamo – caratteristiche e relazioni distintive).

Il MailOnline (Daily Mail), il quotidiano online più letto al mondo con oltre 50 milioni di utenti unici al mese, ha la colonna di destra per eccellenza e segue senza tregua le celebrità, documentando in centinaia di articoli al giorno ogni minima mossa di Rihanna, Kate e Pippa Middleton, Balotelli e purtroppo pure di Suri Cruise. I 2.000 articoli con foto dedicati sinora dal giornale a una bambina che deve ancora compiere sette anni non sembreranno a molti cosa moralmente accettabile. Soprattutto quando si consideri che di Suri Cruise sono sempre ricordate l’eleganza, lo stile e la bellezza con parole e immagini profondamente disturbanti, proprio per gli ammiccamenti giocati con ostentata «innocenza». Ecco un esempio scelto a caso tra i più recenti:

la precoce bimba di sei anni è stata avvistata vestita tutta di rosa, con cappotto imbottito, gonna corta, sciarpa, cuffie e stivali, ma a gambe nude nonostante il tempo freddo di dicembre – forse perché non è riuscita a trovare collant dello stesso colore. [trad. mia]

E a una prima foto di Suri e mamma Katie Holmes con didascalia «Barbie Girl» ne segue un’altra con ingrandimento sulla bambina ripresa a figura intera e didascalia «In perfetta forma: nonostante il freddo Suri era senza collant di lana rosa» (non manca, al solito, il facile gioco di parole: in the pink, letteralmente «nel rosa», significa «in forma perfetta», in condizione rosea).

Questi eccessi morbosi di attenzione su minori non compaiono sulla colonna di destra italiana di Repubblica e nemmeno in quella dei peggiori imitatori (anche perché vi sono norme precise che lo vietano) e sono sufficienti a mostrare il cinismo operativo del quotidiano su web più visto al mondo. Ma pure in questo pessimo caso i 50 milioni di utenti unici al mese del MailOnline possono contare su di un «giornalismo specializzato di grande qualità». L’espressione precedente, nonostante le molto necessarie virgolette, non è un paradosso, perché quell’informazione bassa è pur sempre fatta con tecnica e mezzi assolutamente superiori alle imitazioni nostrane.

Il contenuto dell’articolo su Suri Cruise appena commentato viene infatti offerto alternando brevi blocchi e immagini in una sola pagina, senza ricorrere alla galleria fotografica o alla paginazione. Il primo mezzo costringe a scomodi clic multipli o a uno slideshow e costituisce in Italia la modalità di diffusione principale delle notizie «foto-centriche», mentre in altri contesti, ad esempio sull’Huffington Post, spesso viene offerto in chiusura, a compendio o arricchimento del post; il secondo, la divisione di un articolo in pagine web di piccolo formato, può essere usato onestamente, alla New York Times, o con troppa disinvoltura, cioè in modalità acchiappaclic, alla Giornalettismo (per citare un nome tra i tanti). Queste due scelte di presentazione vengono adottate frequentemente per gonfiare le pagine viste, parametro importante della raccolta pubblicitaria e anche occasione per offrire maggior spazio d’inserzione.

Ogni foto di Suri è inoltre di buona qualità (sia per tecnica fotografica che per copia riprodotta su web, intendo qui risoluzione e formato) e ha una chiara didascalia secondo lo schema breve commento: descrizione già visto con «in the pink». Tutte le immagini sono agevolmente scaricabili, senza blocchi sul tasto destro (come nelle fotonotizie di Repubblica) e altri artifici, che ovviamente non impediscono a chi abbia un minimo di conoscenze informatiche di prelevare i file.

Il MailOnline non lancia poi gli scatti d’agenzia con un semplice «Alba Parietti in topless a Capalbio» o «Vittorio Cecchi Gori in spiaggia a Sabaudia con la fidanzata Filly»; se decide di creare un contenuto web, tira alla storia. E quando la storia non esce facile, la contorna di foto d’archivio e vecchio materiale sul personaggio in modo da crearne un’imitazione non troppo indegna. Sempre «una storia che la gente vuole leggere», e ovviamente qui vi è un apprendimento con feedback da parte del pubblico e il processo di formazione del desiderio e del gusto è continuamente contrattato. Il MailOnline con 500 post al giorno si può inoltre permettere qualche pesante insuccesso e qualche rara vetta, un pezzo giusto un po’ migliore o peggiore degli altri, che, come gli altri, svolge diligentemente il proprio compito d’intrattenimento/informazione e non entrerà nella storia del giornalismo. Anche se, non raramente, farà «il giro del web» e verrà ripreso dai giornali di tutto il mondo, a cominciare dalla colonna di destra di Repubblica.

L’imitazione nostrana non è però quasi mai tecnicamente felice, oltre a «non essere consona al prestigio della testata», perché si sottovaluta l’impegno e la specializzazione necessari per produrre in serie quei materiali bassi. O meglio, dovendo questi contenuti bassi, veloci, numerosi e caduchi finanziare il giornalismo serio, non pare economicamente sensato dedicarvi maggiori risorse. Luca Sofri negli appunti per il suo intervento al Festival Internazionale del Giornalismo 2012, «Il mondo salvato dai giornalisti», spiegava:

In questo, i giornali italiani sono molto più dilettanteschi e arretrati: i loro meccanismi principali di sviluppo del traffico online sono due, il boxino morboso e le gallery. Il boxino morboso, termine che ormai molti conoscono, è quello spazio sempre più sconfinante in cui vengono messi gossip, soft-porno, video con stranezze, papere calcistiche, e notizie strano-ma-vero in generale. Ma lo stesso termine definisce un approccio che ormai dilaga su tutte le notizie […] L’altro strumento di incremento traffico abusato è quello delle gallery, per cui ogni tema, ogni storia, viene «gallerizzato» – anche quelli meno fotograficamente rappresentabili – in modo da moltiplicare le pagine viste. […] su alcuni siti americani la ricerca è molto più avanzata e scientifica, su questo fronte: ma non sono i corrispondenti siti dei giornali internazionali a condurla. Voi avete mai visto il boxino morboso o l’abuso delle gallery sul Guardian, sul New York Times o su Le Monde? No, per qualche ragione quei giornali ritengono che il loro ruolo e la loro offerta siano diversi, pur nella crisi di profitti che riguarda anche loro.

Sofri si riferiva soprattutto a testate americane come BuzzFeed, ma il modello del Daily Mail è ancora più pertinente, sia perché si tratta di quotidiano tradizionale su web, sia perché continua a puntare soprattutto sulla grande quantità di pagine viste per gli introiti dalla rete; non pare cioè molto impegnato in quelle forme di native advertising, articoli scritti direttamente da aziende e indistinguibili da normali contenuti editoriali di un sito, che tanto spazio hanno su BuzzFeed e pure sull’Huffington Post.

I nostri quotidiani si sono spinti con la colonna di destra a imitare il giornalismo basso e veloce del MailOnline per attirare i lettori digitali che non comprano Repubblica a 1,20 euro ma guardano volentieri sul web una galleria fotografica con «le ginocchia raggrinzite delle star». Cercano quindi d’intercettare il numeroso pubblico amante dei portali come Virgilio e Libero, dove abbondano i temi più facili, e di far così crescere le pagine viste, parametro fondamentale in un sistema economico basato ancora in buona parte su vendite di pubblicità secondo il modello CPM (costo per migliaia di pagine viste). Questo modello in America è solitamente riassunto col poco entusiasmante adagio di «i dollari analogici sono diventati centesimi digitali», in quanto ai ricchi profitti degli annunci (classified ads) cartacei, fondamentali per la sostenibilità economica di quelle testate e messe in crisi irreversibile da Craiglist, Monster.com e compagnia, si sono sostituiti i pochi centesimi di guadagno delle pubblicità su web. Dove è inoltre fortissima la concorrenza dei motori di ricerca e dei social network, che possono contare sulla continua generazione di contenuti gratuiti da parte degli utenti e sulla loro visualizzazione di annunci personalizzati, naturalmente meglio pagati (la personalizzazione avviene attraverso la registrazione dell’attività su internet dell’utente e della sua rete sociale, di modo che, per fare l’esempio più semplice, al mio interesse per lo sport documentato in ricerche su Google, in email su Gmail e in mi piace su Facebook corrispondano pubblicità di scarpe da ginnastica e altre attrezzature).

Chiarisco meglio la difficilissima situazione economica degli editori per le pubblicità digitali con le parole dell’esperto Ken Doctor (da un recente pezzo su Nieman Lab dedicato ai paywall, all’accesso a pagamento):

Ecco la storia molto in breve: 1) Cinque società (Google, Yahoo, Microsoft, Facebook, AOL) prendono il 64 per cento della spesa digitale (Google da sola prende il 41,3 per cento), lasciando una fetta sempre più piccola per tutti gli altri nel campo delle pubblicazioni digitali; 2) la quasi infinita disponibilità di spazio per gli annunci crea pressione per il ribasso dei prezzi, in particolare per la visualizzazione di annunci non perfettamente mirati [targeted], il terreno principale su cui opera la maggior parte degli editori. [trad. mia]

Il modello economico dei quotidiani italiani è sempre stato meno dipendente dagli introiti degli annunci e gode di ben altre forme di finanziamento pubblico, però è chiaro che se la diminuzione della pubblicità cartacea e delle vendite è raddoppiata da entrate sull’online molto basse il quadro generale diventa ben cupo. A ciò si aggiunga ancora che il CPM è particolarmente basso in Italia, dove, tolte pure commissioni e tasse, per mille visualizzazioni rimane in tasca davvero poco. In questo contesto la colonna di destra è quindi l’ennesimo sussidio alle «notizie serie» ed è un finanziatore poverissimo, che deve lavorare sempre più duro e più sporco per far quadrare i conti. Non riuscendoci, come dimostra la programmata svolta italiana del 2013 verso l’accesso a pagamento ai quotidiani ondine.

Anderson, Bell e Shirky scrivono in Post-Industrial Journalism: «Il giornalismo ha sempre vissuto di sovvenzioni», riferendosi in primo luogo alle entrate pubblicitarie. In molti paesi poi i reality e le «vite in diretta» pomeridiane sostengono con i loro buoni introiti pubblicitari e i bassi costi di produzione i tg, mentre i settimanali popolari con le storie scandalistiche di successo aiutano le hard news dei quotidiani. Gli aiuti indiretti alla stampa (ad esempio l’Iva e le tariffe postali ridotte) sono altrettanto diffusi. Infine, come è ben noto, in Italia vi sono anche sussidi diretti pubblici e «sussidi interni» privati, con editori impuri che sostengono perdite nel reparto quotidiani per ragioni non sempre pure («propaganda, PR e autopromozione», per citare ancora una volta Ten Years that Shook the Media World).

La rete ha sconquassato questo sistema tradizionale di sovvenzioni, a cominciare dalla pubblicità, in grave calo sul cartaceo e, nonostante ogni crescita nei volumi, non molto redditizia sul digitale per i giornali: Alan D. Mutter calcola che, per le testate americane e i soli risultati nel terzo trimestre dell’anno finanziario tra il 2006 e il 2012, si siano persi 55 dollari in entrate su carta per ogni dollaro guadagnato sul digitale. Pure le testate italiane si sono impegnate nella ricerca di altre fonti di reddito, ad esempio con la preparazione di instant ebook e edizioni per tablet. E, come accennavamo, chi apra il Guardian vedrà che le strade da battere alla ricerca di nuovi ricavi sono ancora molte, dall’organizzazione di eventi alla vendita di biglietti per concerti e spettacoli, ai corsi di formazione. Ma sopra di esse, in senso economico e morale, vi è per molti la redenzione dal «peccato originale» dell’online, ovvero l’eliminazione della consultazione illimitata e gratuita del giornale. Nel dicembre 2012, a Otto e Mezzo, Carlo De Benedetti ha appunto annunciato l’adozione di un modello di accesso a pagamento oltre una certa soglia (metered paywall alla New York Times) per Repubblica nel 2013.

In un quadro ideale le entrate del paywall dovrebbero eliminare la fabbrica di fuffa della colonna di destra e finanziare il «giornalismo serio». Rimane però aperta una questione, specificamente italiana: un pubblico ormai largamente normalizzato verso il basso, abituato da anni a una dieta insana con l’informazione spazzatura del boxino-morboso a fare da pietanza principale, sarà disposto a pagare per un quotidiano che non la contiene più ovvero a visitare un quotidiano che la contiene a pagamento? Quando altri concorrenti, soprattutto tra i born digital, continueranno a offrirla gratis sul web?

Secondo numerosi esperti, anche il Corriere sarebbe intenzionato a percorrere la via a pagamento. In ogni caso è chiaro che il movimento dei leader del mercato provocherebbe un riordino globale del panorama. Anzi lo ha provocato già con i primi annunci e indiscrezioni. Peter Gomez, direttore di IlFattoQuotidiano.it, in un post del 31 dicembre 2012 conferma la non adozione di un paywall da parte del suo giornale e si rivolge direttamente ai visitatori del sito per altre idee di finanziamento:

Scriveteci la vostra opinione sull’idea a cui stiamo ragionando: lasciare tutto il sito a consultazione libera e creare una sezione di contenuti premium a cui si possa accedere tramite un abbonamento.
Ha un senso il progetto di fornire a pagamento la consultazione di tutto l’archivio del cartaceo, di dare la possibilità agli abbonati di partecipare alla scelta degli argomenti a cui dedicare video inchieste, e far assistere inviando suggerimenti (via web e a rotazione) gli abbonati alle nostre riunioni di redazione? Quali altri contenuti premium dovrebbero secondo voi essere riservati agli abbonati sostenitori? E a quanto dovrebbe ammontare l’abbonamento mensile? Quattro euro sono pochi o sono tanti?

Nessun quotidiano tradizionale pare invece aver ancora seriamente considerato, in relazione al fenomeno della frammentazione analizzato nel capitolo precedente, la spacchettizzazione del giornale e la vendita di singoli contenuti. Questo per la poca facilità e diffusione nel nostro paese dei micropagamenti, ma ancora di più per resistenze legate al modello di business sinora praticato e all’identità stessa del giornale. Monetizzare l’accesso alla versione web pare quasi sempre a chi lavora in una testata cosa naturalissima e giustissima, tanto che ci si riferisce, come abbiamo già scritto, alla decisione di rendere gratuito il giornale online come al «peccato originale». Pensare a un giornale come a un insieme di articoli sciolti vendibili singolarmente riesce invece difficile, perché nega quell’ambizione a fornire tutte le notizie, già discussa sopra, e pure quella concezione del «tutto superiore alla somma delle parti» in cui un giornale riconosce il proprio valore, e che anche operazioni innovative e solo apparentemente analoghe come la creazione di ebook da sparsi materiali d’archivio conferma.