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  • Sabato 15 settembre 2012

Vita da presidente

Il bell'articolo su Vanity Fair di Michael Lewis, che è stato sei mesi vicino a Barack Obama e ha imparato a che ora va a dormire e come decide di bombardare la Libia

Sul nuovo numero dell’edizione americana di Vanity Fair c’è un lungo ritratto del presidente Barack Obama scritto da Michael Lewis, giornalista e scrittore (autore tra l’altro del libro “Moneyball”, da cui venne tratto il film con Brad Pitt). Lewis ha avuto accesso per sei mesi alla Casa Bianca e alla vita del presidente e ha costruito un avvincente racconto della “vita da presidente” che va dalle piccole abitudini ai meccanismi con cui Obama prende le decisioni più importanti, mettendo al centro della sua storia la scelta di bombardare la Libia per impedire che Gheddafi reprimesse con violenza le rivolte contro di lui a Bengasi (scelta che poi portò alla caduta e alla morte di Gheddafi stesso).

L’articolo di Lewis (di cui è stata discussa negli USA la richiesta della Casa Bianca di approvare i virgolettati di Obama) alterna due storie parallele: una è quella relativa ad Obama, l’altra quella di Tyler Stark, un giovane “navigatore” di un aereo da combattimento statunitense abbattuto all’inizio di quella missione. I destini dei due furono per qualche momento legati, e le conseguenze di quel che è successo all’uno sono state decisive per quel che è successo all’altro, mostra Lewis, parlandone con Obama stesso. Ma prima, Lewis parla di basket.

Barack Obama va spesso a giocare a basket con un gruppo di amici, giocatori forti: tutti quanti hanno giocato nelle squadre dell’università. Obama è il meno forte del gruppo (ha anche vent’anni più degli altri, mediamente), ma se la cava, spiega Lewis. Soprattutto urla e parla e commenta molto. Gli altri lo trattano come uno qualsiasi (“altrimenti non vengono più invitati”), occasione più unica che rara nella vita del presidente raccontata da Lewis: una volta uno gli ha anche rotto un labbro, così adesso va a giocare col paradenti («non vorremo romperci un dente a 100 giorni dalle elezioni?», dice ai suoi). Anche quello che gli ha rotto il labbro, comunque, non l’hanno più chiamato.

«Funziona che invecchiando le mie chance di fare una buona partita calano. Quando avevo trent’anni erano una su due. A quaranta erano diventate una su tre o una su quattro». Una volta Obama si concentrava sul risultato personale, ma ora che non può più ottenere grandi soddisfazioni, si dedica di più a capire come far vincere la sua squadra. Anche nel declino, cerca di conservare un’importanza e un senso del suo ruolo.

A bordo campo c’è Martin Nesbitt, che è «il mio migliore amico», dice Obama. Oggi ha una società di parcheggi aeroportuali ma conobbe Obama giocando a basket assieme quando erano entrambi a Chicago. Non seppe niente dei suoi successi politici per molto tempo, e quando Obama gli regalò il suo libro “I sogni di mio padre” lo mise in uno scaffale pensando se lo fosse fatto da sé. “Marty” sta a bordo campo, e tiene il tempo.

La giornata di Obama, basket a parte, ha due fili conduttori, spiega Lewis. Uno è la serie impressionantemente varia di impegni incessanti, che vanno dall’affrontare la crisi di un attentato a incontrare un bambino malato terminale che ha chiesto di conoscerlo, con una capacità incredibile di spostare la propria concentrazione da uno all’altro. L’altro è – la sostanza dell’essere presidente, spiega Obama – il dover continuamente prendere decisioni.

Molte se non quasi tutte le decisioni da prendere gli arrivano addosso, all’improvviso, da eventi fuori dal suo controllo: perdite petrolifere, panico finanziario, epidemie, terremoti, incendi, colpi di stato, invasioni, attentatori suicidi, sparatorie nei cinema, e via così. Non si mettono disciplinatamente in ordine, ma arrivano a ondate, una sopra l’altra. «Niente che arrivi sulla mia scrivania ha una soluzione certa. Altrimenti qualcuno l’avrebbe già trovata. Quindi finisci a fare i conti con le probabilità. Ogni decisione che tu possa prendere ti troverai con un 30 o 40 per cento di probabilità che non funzioni. Devi adattartici e sentirti a tuo agio nelle scelte che fai. Non puoi farti paralizzare dall’idea che possa non funzionare. E soprattutto, dopo che hai preso una decisione, devi trasmettere una totale certezza. La gente che guidi non vuole pensare in termini di probabilità.»

Michelle Obama va a letto alle dieci di sera. Per le tre ore successive, suo marito “vive la cosa più simile alla riservatezza”. Dopo una giornata calendarizzata esattamente in ogni quarto d’ora, nessuno adesso sa esattamente cosa stia facendo, e anche se non può uscire di casa, può guardare lo sport in tv, leggere, stare sull’iPad, chiamare dei leader mondiali su altri fusi orari, e altre cose “quasi normali”. Ma spesso organizza i pensieri sul giorno dopo, e quando si sveglia alle sette sa già cosa lo aspetta. La notte dorme, ma può capitare che venga svegliato: i suoi assistenti devono decidere se le crisi o eventi di cui arriva notizia la notte impongano di avvisarlo subito o no. Per Fukushima lo svegliarono, per esempio. Alle sette e mezza è in palestra per un’ora (un giorno fa ginnastica e uno pesi) – «se non ti tieni in forma ogni giorno, prima o poi crolli» – poi fa una doccia e si mette un vestito, sempre blu o grigio. A Lewis ha spiegato che lui non sarebbe di carattere così ordinato e pianificatore, «ma a un certo punto nella vita ho overcompensato». Proprio per la quantità di decisioni che dovrà prendere per forza e che può prendere solo lui, la sua giornata e la sua squadra è organizzata per sottrargli ogni scelta non indispensabile.

Ha bisogno di eliminare dalla sua vita quotidiana ognuno dei problemi che assorbe la maggior parte delle persone per un’inutile parte della giornata. «Come vedi ho sembre un vestito blu o grigio. Cerco di ridurre le scelte da fare. Non voglio decidere cosa mangiare o cosa mettermi. Ho già troppe altre decisioni da prendere». E cita delle ricerche che dicono che il solo atto di prendere una decisione diminuisce la capacità di prenderne ulteriori.

Barack Obama guarda i giornali la mattina, ma in televisione non guarda mai le reti via cavo con le news politiche più aggressive e quasi solo ESPN, il canale di sport: «Una delle cose che capisci piuttosto rapidamente in questo lavoro è che c’è un personaggio là fuori che la gente chiama Barack Obama. E non sei tu. Può essere buono o cattivo, ma non sei tu». Finisci per vivere molto in una specie di “fantasilandia”, dice Obama. La violenza pretestuosa e faziosa della battaglia è diventata un elemento centrale della politica americana.

«È stato creato un contesto in cui gli incentivi a collaborare per i politici non funzionano più come un tempo. Lyndon Johnson lavorava in un sistema in cui, se otteneva il consenso di un paio di presidenti di commissione, sapeva di avere un accordo. Quei presidenti non temevano gli attacchi dei Tea Party. Né delle news via cavo. Quel modello è progressivamente slittato a ogni amministrazione. La scelta non è paura-contro-buone-maniere. La domanda è: come guidi l’opinione pubblica e presenti una questione, in modo che sia difficile per i tuoi avversari dire di no? E oggi non ti basta più dire “va bene, cambio un emendamento” o “allora non nomino tuo cognato alla corte federale”»

Tutto è eccezionale, nella vita del Presidente, racconta Lewis. Ma alcune cose sono più eccezionali di altre: il 15 marzo fu convocata una riunione alla Casa Bianca per decidere come affrontare l’annuncio congiunto della Francia e del Regno Unito di voler chiedere alle Nazioni Unite che fosse imposta una no-fly zone sulla Libia per proteggere gli abitanti di Bengasi dall’intervento dei soldati di Gheddafi, che stavano muovendo verso la città per reprimere la rivolta contro il regime. Ricorda Obama:

«Ecco cosa sapevamo. Sapevamo che Gheddafi stava muovendo verso Bengasi, e che la sua storia diceva che avrebbe potuto uccidere decine di migliaia di persone. Sapevamo che non c’era molto tempo: tra un paio di giorni e due settimane. Sapevamo che stava accadendo più rapidamente di quanto avessimo previsto. Sapevamo che l’Europa stava proponendo una no-fly zone». E un’altra cosa, che a differenza di queste non era sui giornali: «Sapevamo che una no-fly zone non avrebbe salvato la gente di Bengasi. Era un’espressione di allarme che di fatto non serviva a nulla, perché l’esercito libico stava muovendo verso Bengasi da terra, con mezzi e carri armati.»

Alla riunione del 15 marzo parteciparono i “pezzi grossi”: il ministro della Difesa Gates, quello degli Esteri Clinton, il vicepresidente Biden, il capo della Sicurezza nazionale, i vertici militari, l’ambasciatrice all’ONU Rice. In questo genere di riunioni, spiega Michael Lewis, non si discute: Obama vuole che ognuno dica la sua opinione, a turno, e poi dice la sua raccogliendo quello che ha ascoltato. Le opzioni in ballo, quel giorno, si rivelarono essere solo due: aderire alla richiesta della no-fly zone, o non fare niente. Insoddisfatto, Obama coinvolse gli altri presenti, quelli nelle seconde file: assistenti più giovani, responsabili stampa e comunicazioni, collaboratori: «Cercavo una tesi che nessuno di quelli al tavolo aveva espresso. E se l’avessi espressa io – è il “principio Heisenberg” – questo avrebbe di per sé cambiato il parere dei presenti». In più, aggiunge Lewis con molti esempi, Obama ha una tendenza a sovvertire le gerarchie e ascoltare quelli che altri non ascoltano: “non a caso, è stato eletto presidente”, dice Lewis.

Obama racconta che in queste situazioni è consueto che gli vengano proposte scelte “bianco o nero”, per non complicare le cose: in più, le implicazioni politiche di un intervento diverso in Libia erano tutte negative, a ogni evidenza. Con due guerre nei paesi arabi da chiudere, se ne apriva un’altra? In un posto che la maggior parte degli ameriani neanche sapeva dove fosse? Senza interessi per la sicurezza nazionale? Nessuno al tavolo diede il minimo spazio all’idea di una terza scelta. Quelli delle “seconde file”, invece, la pensavano diversamente: molti ricordarono il Ruanda e il senso di colpa per non avere ostacolato quei massacri, quasi tutti dissero che era difficile pensare di giustificare un’indifferenza degli Stati Uniti al destino degli abitanti di Bengasi.

Era quanto bastava a Obama: che disse ai generali che le due alternative erano entrambe insoddisfacenti e riconvocò la riunione in due ore, chiedendone una terza.

Per capire questo Barack Obama, Michael Lewis apre una parentesi sui giorni in cui gli fu assegnato il premio Nobel per la Pace (quella volta lo svegliarono, nel cuore della notte, «E capii immediatamente che ne sarebbero venuti problemi»).

Il comitato del Premio Nobel gli aveva reso un po’ più difficile fare il lavoro per cui era stato eletto, il Comandante in Capo, rendendolo simultaneamente l’uomo più potente della terra e il volto del pacifismo.

Obama affrontò la contraddizione chiedendo ai suoi speechwriters di scrivere un discorso di accettazione del Nobel per la Pace che spiegasse le ragioni della guerra. Fu un lavoro molto difficile, risolto alla fine con una riscrittura totale da parte dello stesso Obama la notte prima di volare a Oslo, “nel tentativo di riconciliare le dottrine nonviolente di due dei suoi eroi, Gandhi e Martin Luther King, con il suo nuovo ruolo in un mondo violento”.

«Quello che dovevo fare era descrivere il concetto di guerra giusta. Ma anche ammettere che il concetto stesso di guerra giusta può portare in luoghi oscuri. E quindi non puoi essere indulgente nel definire qualcosa “giusto”. Devi farti domande, continuamente»

Il risultato, quel discorso, ritoccato «ancora mentre stavo salendo sul palco», adesso gli si presentava concretamente, dopo due ore di altri impegni i più diversi, nella riunione riconvocata nella Situation Room alle 19,30 del 15 marzo. Dove il Pentagono presentò la terza scelta: ottenere dalle Nazioni Unite una risoluzione per usare “tutte le misure necessarie” a proteggere i civili libici. Obama ha già deciso di scartare le altre due, e su questa ha una condizione irrinunciabile: intervenire multilateralmente, come aveva sostenuto nel discorso di Oslo.

«Perché il processo stesso di costruire una coalizione ti impone domande più difficili a cui dare risposta. Tu puoi essere convinto di essere moralmente nel giusto, ma forse ti stai ingannando.»

Nessuno dei “pezzi grossi” appoggiò la terza scelta. Hillary Clinton fu più disponibile, ma sostenne quella della no-fly zone. «A chi frega un cazzo della Libia?», disse il capo di gabinetto William Daley. Obama riconobbe che era vero, ma pensò che proprio questo poteva dargli un breve spazio per fare quello che voleva, fino a che il caso era così estraneo ai pensieri degli americani. E decise da solo. Poi lasciò la riunione, chiamò Cameron e Sarkozy per “andare a vedere il loro bluff” e dir loro che, una volta usata la necessaria forza militare americana, alla fase successiva avrebbero dovuto pensare loro. Il mattino dopo chiamò Medvedev, e grazie a una ricostruzione recente di buoni rapporti (“i russi sono sul piano internazionale quello che i repubblicani sono su quello interno: quelli che si mettono di traverso”, dice Lewis) ottenne il suo consenso, “forse perché sperava che per gli Stati Uniti finisse in un disastro”.

Il 19 marzo, dopo la risoluzione ONU, cominciarono i bombardamenti. Obama ebbe immediatamente addosso mezza America e forse più di mezza, dai suoi avversari a molti suoi alleati a molti suoi elettori. Persino chi aveva criticato l’inettitudine dell’amministrazione rispetto a quello che accadeva in Libia e aveva chiesto di intervenire, ora protestava. «La macchina polemica è molto più forte della macchina della realtà», dice un uomo della Casa Bianca. E tutta quella macchina aspettava solo che succedesse il disastro: il 21 marzo Obama si trovava in Cile assieme ai leader politici locali ad ascoltare un concerto, quando fu informato da un collaboratore che un F-15 americano si era schiantato nel deserto libico: il pilota era stato recuperato, ma il navigatore no.

«Il mio primo pensiero fu come trovarlo. Il secondo fu che questo era un promemoria che qualcosa può sempre andar storto. E che se va storto, ci sono conseguenze.»

Il navigatore si chiamava Tyler Stark, 27 anni, un destino straordinario che lo aveva reso uno dei feriti nella caffetteria del liceo di Columbine del 1999, di cui era matricola, e ora abbattuto nella seconda notte di bombardamenti in Libia, in una missione di cui non sapeva niente – meno che mai le origini politiche ed esecutive – se non gli ordini ricevuti.

Stark, mentre Obama sentiva per la prima volta nella vita parlare di lui, era precipitato col paracadute danneggiato e si era ferito, con lesioni ai tendini della gamba sinistra. Non sapeva dove si trovava esattamente, era buio, e si era nascosto tra dei cespugli, ma poco dopo era stato trovato da alcuni uomini che non parlavano inglese e lui non capiva la loro lingua: era spaventato, non sapeva esattamente chi fosse il nemico ma sapeva di trovarsi nel territorio che il suo aereo stava bombardando. Quegli uomini, intanto, non sapevano esattamente chi stesse bombardando l’esercito libico e chi fosse questo soldato: pensarono allora di chiamare un conoscente che insegnava inglese a Bengasi, convinti che il soldato fosse francese. Al telefono, quello disse di essere stato a Parigi molti anni prima, e che sarebbe arrivato a breve. Ma quando fu lì capì che Stark – teso, ferito, si teneva un ginocchio – era americano, e gli disse allora in inglese che aveva un amico all’ambasciata degli Stati Uniti e lo avrebbe chiamato. Stark non ci poteva credere.

I due salirono in macchina: Stark aveva ordini di non dare nessuna informazione, quindi l’altro gli parlò del più e del meno e mise un nastro di musica anni Ottanta. La prima canzone fu “Endless love” di Diana Ross e Lionel Richie, che gli ricordava il suo matrimonio, raccontò a Stark. Lo portò in un hotel di Bengasi, poco lontano, dove vennero raggiunti da un medico e dagli uomini dell’ambasciata. La voce del soldato che era venuto con gli americani a salvare Bengasi da Gheddafi intanto era girata, e a un certo punto Stark si trovò in una stanza affollata di gente che lo applaudiva. “E non sapeva il perché della sua missione”, ha raccontato il libico che lo aveva soccorso a Lewis.

«Quel pilota», è la risposta di Obama alla domanda su cosa poteva andare storto in Libia. Bastava che finisse nelle mani sbagliate, o anche solo che morisse precipitando, e sarebbe stata tutta un’altra storia, dice Obama, grande narratore di storie. “La storia di come un presidente eletto per tirarci fuori da una guerra in un paese arabo, fece ammazzare degli americani in un altro”, avrebbero detto i suoi nemici. Per questo «fu una di quelle decisioni 51-49», dice oggi Obama.
Ma è anche vero che Obama si costruì la propria fortuna, aggiunge Lewis: se Stark fu aiutato e protetto e salvato è proprio per via di quella decisione, per le ragioni per cui era stato mandato là.

Il racconto di Lewis si conclude con una visita nelle stanze private dell’abitazione degli Obama, alla Casa Bianca, quelle in cui di solito stanno solo loro. Il presidente lo porta a vedere il suo posto preferito, un balcone seminascosto in cui lui e sua moglie si siedono a volte la sera, «la cosa più vicina a uscire, a sentirsi fuori dalla bolla». È un bel posto, il Truman Balcony, le piante intorno, il panorama dei monumenti di Washington, si vede la gente in lontananza su Constitution Avenue, “se Obama salutasse qualcuno da là potrebbe persino vederlo e salutarlo”. Accanto a Lewis, Obama glielo mostra, c’è il punto sul muro in cui un proiettile si è conficcato quando un uomo sparò contro la Casa Bianca da laggiù, lo scorso novembre.