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  • Venerdì 15 ottobre 2010

Il disincanto israeliano

Ahmadinejad che minaccia da oltre il confine libanese è il minore dei problemi

di Filippomaria Pontani

Israeli soldiers eat apples in the Israeli town of Metulla, seen from the southern border village of Kfar Kila, Lebanon, Thursday, Oct. 14, 2010. Iranian President Mahmoud Ahmadinejad came to the doorstep of his archenemy Israel on Thursday, telling tens of thousands of Hezbollah supporters in a Lebanese border town he was proud of their struggle as Israeli helicopters buzzed the skies along the tense frontier. (AP Photo/Mohammed Zaatari)
Israeli soldiers eat apples in the Israeli town of Metulla, seen from the southern border village of Kfar Kila, Lebanon, Thursday, Oct. 14, 2010. Iranian President Mahmoud Ahmadinejad came to the doorstep of his archenemy Israel on Thursday, telling tens of thousands of Hezbollah supporters in a Lebanese border town he was proud of their struggle as Israeli helicopters buzzed the skies along the tense frontier. (AP Photo/Mohammed Zaatari)

Termina oggi il viaggio in Libano di Mahmoud Ahmadinejad, che ha toccato il suo momento più alto nel discorso tenuto a Bint Jbeil, un villaggio sito a 4 km dalla frontiera con Israele, e pesantemente bombardato durante la guerra del 2006 (quella immortalata nel film Lebanon premiato l’anno scorso a Venezia). I discorsi del leader iraniano, le sue minacce alla sopravvivenza di Israele, le sue rinnovate ambizioni egemoniche nell’area, non hanno sorpreso nessuno; e solo i meno avvertiti saranno rimasti spiazzati dall’enorme seguito popolare della sua visita, o dagli applausi che gli hanno tributato i medesimi libanesi pronti a fischiare il loro premier Saad Hariri, che pure lo accompagnava con tutti gli onori. È infatti cosa arcinota che Hezbollah detiene il vero controllo politico del Sud del Paese, e che la recentissima e rapidissima ricostruzione da Sidone in giù è dovuta ai denari di Teheran almeno tanto quanto quella – certo più ampia e annosa – di Beirut e dintorni è stata finanziata dai petrodollari di Dubai e Riyad.

Seppure priva (come i più ottimisti si auguravano) di novità eclatanti sul piano politico, questa visita ha dunque ribadito l’esistenza di una seria minaccia militare per Israele lungo il suo confine settentrionale, specie in considerazione dello squilibrio dei rapporti di forza tra l’esercito regolare libanese e le ben più potenti milizie di Hezbollah, le uniche artefici della vittoria su Tsahal nella guerra del 2006, e di fatto le uniche garanti – anche a livello di aiuti economici e di assistenza, come avviene per Hamas a Gaza – della tenuta sociale delle zone del Sud e della Bekaa, dove – come raccontavo settimane fa  – le magliette e i cappellini gialli di Hezbollah si vendono a dozzine sotto le secolari rovine di Baalbek.

Ma il supporto popolare a Hezbollah non nasce dal nulla. Poche decine di chilometri a nordest di Bint Jbeil, sempre a un tiro di schioppo dal confine, sorgono i miseri resti del campo di detenzione di Al-Khiam, dove i miliziani (prevalentemente cristiani) dell’Esercito del Libano del Sud rinchiusero, torturarono e massacrarono per anni – con l’attiva complicità di Tsahal – decine di Libanesi che si opponevano all’occupazione israeliana, iniziata nel 1982 (dopo l’anteprima dell'”Operazione Litani” nel 1978), e finita solo nel maggio del 2000: una sorta di Sabra e Chatila in loop, per intenderci. All’indomani del ritiro israeliano, Al-Khiam era diventato un museo, allestito da Hezbollah per eternare il ricordo dell’orrore, ma lo sciagurato e fallimentare attacco israeliano del 2006 ha avuto fra i suoi molti bersagli anche la distruzione di quel campo, che è come dire la distruzione di una memoria scomoda.

È all’interno del campo di Al-Khiam che si svolgono le scene centrali di uno dei film più coinvolgenti che ho visto di recente, Incendies di Dominique Villeneuve, basato sull’omonima pièce dell’autore canado-libanese Wajdi Mouawad. Presentato e premiato ai festival di Venezia (Giornate degli Autori) e a Toronto, è destinato a circolare in Italia a gennaio, e c’è da chiedersi se sarà accolto da sale così gremite come quelle in cui mi sono smarrito nei giorni della sua uscita a Montréal: di certo, è un buon candidato all’Oscar per il miglior film straniero del 2011. Non intendo svelare la complessa trama di questa narrazione che si svolge a cavallo fra il Québec e le petrose montagne del Libano, ma raccomando a chiunque intenda assistervi di prepararsi almeno sommariamente sugli ultimi 30 anni di storia della regione, di aspettarsi immagini potenti in luogo dei potenti e visionari monologhi teatrali della pièce di Mouawad (la sceneggiatura del film, al contrario, non è sempre impeccabile), e di fare attenzione alle riprese magnifiche e magnificamente montate, forse l’unica possibile cornice per un film che, oggi, coltivi un’ambizione di stile tragico. Tra parentesi, chi troverà assurdi certi elementi del racconto potrà riguardare la biografia di Souha Bechara (nata nel 1967), e chi protesterà per l’inverosimiglianza del dénouement farà bene a rileggere Sofocle.

A fronte di questo passato, e del presente oggi pericolosamente incarnato da Ahmadinejad, l’atteggiamento del governo israeliano continua a essere ottusamente il medesimo: ne fa fede a livello ufficiale la recentissima proposta di Netanyahu di una nuova moratoria dei nuovi insediamenti in Cisgiordania in cambio del riconoscimento di Israele come stato degli Ebrei. È francamente grottesco come nella stampa internazionale l’atteggiamento del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, che l’altro giorno ha coloritamente invitato i colleghi Kouchner e Moratinos a occuparsi dei problemi di casa loro prima di dar lezioni a Israele, venga diffusamente recepito come una “gaffe”. La verità è che un simile oltraggio (in termini diplomatici, ovviamente) riflette da un lato la necessità interna di presentarsi come campione degli intransigenti, dall’altro il dato di fondo che emerge da una proposta così assurda come quella del premier: ovvero la convinzione che Israele sia e resti la terra promessa per gli Ebrei, che gli Arabi che vi abitano (pur attualmente rappresentati in Parlamento) vadano cacciati o almeno neutralizzati, e soprattutto che lo stato d’Israele possa e debba definirsi essenzialmente su basi religiose. In altre parole, che non abbia bisogno di una Costituzione (che infatti a tutt’oggi non possiede), e che al contrario i suoi cittadini debbano prestare giuramento allo Stato in quanto Repubblica ebraica: siamo, di fatto, oltre il nazionalismo; siamo alla teocrazia.

Ne ha parlato l’altro ieri, con toni accesi ma del tutto condivisibili, Gideon Levy, un giornalista di Haaretz che è uno dei pochissimi Israeliani a frequentare regolarmente i territori occupati. I reportages che egli ne offre da vent’anni ormai, le denunce che lancia con costanza e regolarità, dovrebbero convincere chiunque che Israele è certo una democrazia, ma solo per una parte dei suoi abitanti. Cos’hanno a che fare con la democrazia – per rimanere nell’ambito della tragedia greca – i divieti che impediscono alle donne palestinesi incinte di partorire nell’ospedale più vicino, se questo è situato oltre il muro (molte donne hanno così perso il bambino)? Cos’ha a che fare con la democrazia l’occupazione più lunga della storia recente (siamo a 42 anni), e forse l’unica in cui l’occupante si presenta continuamente come vittima? Cos’hanno a che fare con la democrazia le campagne d’odio contro gli arabi che ogni giorno incattiviscono e lavano il cervello dell’opinione pubblica?


Stupisce in particolare che in Occidente sia assai difficile parlare con franchezza di questi temi, come se ciò equivalesse a professare antisemitismo (Levy è figlio di due sopravvissuti della Shoah) o spingesse a dimenticare gli orrori perpetrati dai kamikaze durante la seconda Intifada. Nel suo ultimo libro, The Punishment of Gaza, Levy racconta che durante l’operazione “Piombo fuso” fu intervistato da un collega di TF1 dinanzi alle rovine fumanti di una casa, dove un’anziana paralizzata era rimasta l’unica in vita dopo che una bomba aveva portato via anche sua figlia: egli dichiarò allora che si vergognava di essere israeliano, ma questa frase impedì che la sua intervista venisse trasmessa in Francia, dove – si giustificarono a posteriori quelli della rete – “avrebbe scioccato le coscienze”. Episodi come questo, accompagnati in solido dalla grave titubanza della politica estera di Obama, fanno perdere le speranze in un qualsivoglia aiuto “dall’esterno” alla soluzione del conflitto mediorientale.

Sempre più chiaramente, dopo le flebili speranze iniziali, i colloqui destinati a produrre “la pace in un anno” si stanno rivelando – parole di Levy, udite a Toronto in una gremitissima assemblea all’Università – “a masquerade”. Probabilmente i carri di cartapesta (e quelli armati) continueranno a sfilare finché Israele non capirà che concepire seriamente un ritiro dai territori occupati (dove per l’intanto, all’opposto, continua a costruire) rappresenta l’unico modo per togliere il terreno sotto i piedi della retorica iraniana, e per dare fiato, nell’ancor più strategico e frammentato Libano, alle tante componenti etniche e politiche che sostengono un modello di sviluppo politico ed economico diverso da quello propugnato da Hezbollah.

C’è qui un presente senza tempo, e nessuno trova nessuno.
Nessuno ricorda come uscimmo dalla porta simili a un colpo di vento,
a che ora cademmo giù dallo ieri, e poi lo ieri
si frantumò sulle tegole
in frammenti che altri avrebbero riunito in specchi
riflettendo le loro immagini sulle nostre.

C’è qui un presente senza luogo.
Forse posso maneggiare la mia vita e gridare nella notte della civetta:
Quest’uomo condannato che scaricava su di me la sua storia era mio padre?
Forse sarò trasformato nel mio nome, e sceglierò
le parole e i gesti di mia madre, proprio come erano.
Così lei potrebbe accarezzarmi ogni volta che il sale cade sul mio sangue,
nutrirmi ogni volta che un usignolo mi morde sulla lingua.

C’è qui un presente transitorio.
Qui degli estranei appendono le pistole sui rami dell’olivo,
per tirar fuori alla meglio la loro cena dalle scatolette
e correre frettolosi ai loro camion.

(Mahmoud Darwish)