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  • Martedì 27 luglio 2010

L’Islanda vuole entrare nella UE, o forse no

La volontà dell'Islanda di mantenere indipendente dalle leggi europee l'attività peschiera, che comprende la pesca alla balena (vietata dall'Ue) ed il caso della banca Icesave potrebbero ostacolarne l'ammissione alla Ue

di Francesca Barca

Sono stati aperti ieri i negoziati per l’adesione dell’Islanda all’Unione Europea. La domanda di Reykjavik è stata depositata nel luglio del 2009, qualche tempo dopo l’esplosione della crisi finanziaria che ha devastato l’economia del Paese. Da allora la Commissione sembra piuttosto interessata a far avanzare il dossier, anche se i problemi che allontanano l’isola dall’Ue persistono e i sondaggi non danno gli islandesi come euro-entusiasti.

Uscendo dalla riunione di Bruxelles tra i Ministri delle politiche europee, il francese Pierre Lelouche ha dichiarato: «Bisogna volerci entrare,  in Europa: e a giudicare dai sondaggi non mi pare che sia il caso degli islandesi. Il problema è tutto qui». Dopo la crisi finanziaria della fine del 2008 e il crollo della moneta, il governo islandese vede nell’euro un mezzo per stabilizzare la sua economia. Cristallina, da questo punto di vista, la dichiarazione di Össur Skarphéðinsson, Ministro degli esteri islandese, all’inizio di luglio: «Se l’Islanda avesse fatto parte dell’Ue, per non dire della zona euro, la crisi e il crollo delle banche non avrebbero mai avuto luogo».

La pesca e le banche

Le trattative, che affronteranno una trentina di capitoli, si annunciano problematiche sui temi che già da un po’ sono “caldi”, come ad esempio la pesca. L’Islanda, infatti, ha cercato in tutti i modi di mantenere indipendente la sua attività, sopratutto per quanto riguarda la pesca al merluzzo e alla balena, quest’ultima vietata nella Ue.

Altro problema quello della banca Icesave, che è costato all’Islanda degli screzi con la Gran Bretagna e l’Olanda: i clienti britannici e olandesi di questo istituto sono stati seriamente danneggiati durante la crisi finanziaria, ma i danni sono stati coperti dai rispettivi Paesi, che stanno ancora aspettando un rimborso.

Ciononostante pare che la Commissione abbia particolarmente a cuore il dossier islandese, che potrebbe diventare il 29simo Paese dell’Ue, dopo la Croazia, la cui entrata è prevista per fine 2011 o inizio 2012. I dossier aperti al momento sono parecchi, soprattutto sul versante balcanico. La Turchia è sempre in attesa, così come la Repubblica di Macedonia. Altri cinque sono in stand by, anche se si tratterà di attese più lunghe: l’Albania, la Bosnia Erzegovina, il Montenegro, la Serbia e il Kosovo.

Solo il 25% degli islandesi è favorevole

Sicuramente per l’Islanda è tutto molto più facile: Reykjavik fa parte del mercato comune da quindici anni, è all’interno dei Schengen e l’isola già applica tre quarti delle leggi europee necessarie per l’adesione. Il problema pare che sia il consenso dei suoi cittadini, che non sembrano entusiasti all’idea. Si potrebbero ripetere i casi di Svizzera e Norvegia, i cui cittadini non hanno accettato l’entrata nell’Ue che i governi hanno più volte loro proposto. Per questo Pierre  Lelouche ha ieri ripetuto: «Siamo molto favorevoli all’entrata dell’Islanda. Ma deve essere come per tutti gli altri, senza scorciatoia. E a condizione che gli islandesi siano interessati. Non obbligheremo nessuno». Secondo un sondaggio realizzato in giugno da Market and Media Research quasi il 60% degli islandesi vorrebbe che il  governo ritirasse la sua domanda di adesione, mentre solo il 25% sarebbe favorevole.

Michel Sallé, specialista dell’Islanda contemporanea e Presidente dell’associazione France-Islande, in un’intervista al quotidiano Le Monde del maggio del 2009 spiegava che quello che gli islandesi vorrebbero è “un’euro senza Ue” – un po’ il contrario della Gran Bretagna – e che il Governo di Reykjavik aveva già tentato questa strada: «Hanno più volte depositato la domanda alla Banca Centrale europea, ottenendo un rifiuto. L’ultima volta nell’ottobre (2008) l’ha proposto il partito dell’Indipendenza (conservatore), al potere al momento della crisi economica. Un altro rifiuto».