domenica 19 Gennaio 2025

Charlie, tendere la mano quando affoghi

In questi mesi il Washington Post, una delle più note e autorevoli testate giornalistiche del mondo, è protagonista di vicende eccezionali ma anche illuminanti ed esemplari non solo per il sistema dell’informazione – per “il dannato futuro dei giornali” – ma anche in generale per i cambiamenti nelle nostre società. Chi segue Charlie conosce le puntate precedenti, e qui sotto ce ne sono di nuove, ma anticipiamo in questo prologo l’indirizzo che sembra voler prendere la proprietà del giornale secondo un articolo uscito giovedì sul New York Times: ovvero di accantonare la scelta battagliera in difesa della democrazia dell’ultimo decennio, quella che negli Stati Uniti divisi dichiarava chiaramente da che parte stare, in favore di un maggior ecumenismo, rappresentato dallo slogan “Riveting storytelling for all of America”: grossomodo “storie avvincenti per tutta l’America”.

C’è molto da notare in questa formula, a cominciare dall’uso dei termini “riveting” e “storytelling” al posto di qualunque citazione di “giornalismo” o “informazione” o “news”, nel solco di una tendenza contemporanea che muove molti giornali verso la creazione di emozioni e di “narrazioni” per essere competitivi con le dinamiche prevalenti sui social network.
Ma visto da qui, è anche interessante notare come questa storia non suoni nuova: “un giornale meno ideologico”, che parli a tutti, “che non divida il mondo nelle vecchie categorie destra-sinistra”, sono gli annunci con cui Maurizio Molinari presentò i cambiamenti di Repubblica quando ne venne nominato direttore quattro anni fa. Poi sappiamo com’è andata: perdita di giornalisti importanti, grossa perdita di copie vendute, sconfitta nella competizione con la testata concorrente, tensioni nella redazione, tutto infine culminato nella sostituzione del direttore qualche mese fa, e nella faticosa ricerca di una ricostruzione di identità, tuttora con la proprietà poco convinta.

Naturalmente i contesti hanno le loro sensibili differenze, ma le similitudini possono far dire un paio di cose. La prima è che emanciparsi dalle partigianerie correnti in un progetto giornalistico può essere un’ottima e benintenzionata idea se sei credibile, e se sei più credibile dei tuoi concorrenti più forti. E se hai poco da perdere: un conto è proporre un progetto nuovo, assai più difficile è sradicare un’identità e rimpiazzarla con una nuova. Nessuno dei rari successi editoriali di questi anni, ci pare, viene da un ribaltamento del posizionamento di una testata storica.
La seconda è che emanciparsi dalle partigianerie correnti può essere una credibile e benintenzionata idea se avviene quando la tua parte è vincente e sceglie di usare il suo potere per attenuare le partigianerie suddette e dedicarsi a unire: se avviene invece quando la tua parte ha perso, come in entrambi i casi paragonati, il dubbio sul disinteresse e la buona fede – che si tratti di Exor o di Bezos, con le rispettive priorità di relazioni con i governi – diventa inevitabilmente sostanzioso, e spesso confermato dai fatti.

Fine di questo prologo.

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