domenica 19 Ottobre 2025
È assolutamente nei diritti delle aziende decidere di pubblicizzare i propri prodotti sui giornali o no, e su quali giornali farlo. Il vittimismo delle aziende giornalistiche che a volte protestano per il ritiro di questo o quell’investimento pubblicitario è del tutto pretestuoso: le aziende hanno i loro interessi, e se sono insoddisfatte di come vengono trattate, è legittimo che investano in altro modo le proprie risorse economiche. Non sta scritto da nessuna parte che gli inserzionisti debbano sovvenzionare l’informazione giornalistica. E ci sono stati casi famosi in cui hanno deciso di non farlo.
Questa legittimità e libertà non sollevano però da un giudizio morale nei confronti delle aziende che si adattano o che incentivano un modello di relazione coi giornali che non ha niente a che fare con il promuovere i propri prodotti o servizi presso il pubblico. C’è una cospicua parte di investimenti pubblicitari che è dedicata di fatto a una “corruzione” delle testate destinatarie, per ottenerne la disponibilità nel pubblicare comunicazioni interessate o nel trattenere notizie indesiderate. O persino per ottenere la disponibilità di parti politiche vicine a quelle testate. Un conto è dire che la pubblicità non è tenuta a sostenere la buona informazione, altro è contestare che sostenga quella cattiva, plagiata dai suoi interessi.
E se questa newsletter segnala spesso dimostrazioni di questo tipo di relazione per spiegare i meccanismi che orientano alcune scelte dei giornali, questo non significa che le aziende siano estranee a quei meccanismi. C’è qualcosa di avvilente, nel “comprare” promozioni posticce mascherate da giornalismo. E questo tipo di uso degli investimenti pubblicitari è promosso e richiesto dagli stessi inserzionisti. Nella “corruzione” ci sono corrotti e corruttori. E non è nemmeno esente da valutazione – ognuno faccia la propria – il tipo di giornalismo che gli inserzionisti sostengono: l’alibi del “pluralismo” nel giornalismo italiano ha fatto parecchi danni, giustificando (e persino sovvenzionando) progetti di informazione di pessima qualità e peggiorativi della convivenza civile e del funzionamento della democrazia. E oltre certi livelli di falsificazione gli inserzionisti non si possono chiamare fuori da una responsabilità. I “discorsi d’odio” e la disinformazione – quando sono trasmessi sui giornali – li permettono gli inserzionisti pubblicitari.
Fine di questo prologo.
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