domenica 20 Aprile 2025
Il New York Times ha pubblicato una illuminante raccolta di pareri sull’attrattiva del ruolo di direttore o direttrice di Vanity Fair, dopo che la sua attuale direttrice ha deciso di dimettersi. L’articolo spiega che un tempo quell’incarico sarebbe stato vissuto da chiunque nella professione giornalistica come ricco di prestigio, soddisfazioni e privilegi: ma oggi la direzione delle grandi testate giornalistiche è invece diventata per la gran parte del tempo e dei pensieri una questione di declini da attenuare e crisi da contenere.
La riflessione è interessante sia perché in parte riguarda anche i più importanti giornali italiani, e sia perché in parte no. Affrontare il declino è in effetti diventata la priorità maggiore anche di chi dirige le grandi testate tradizionali qui, e questo rende meno attraenti quei ruoli per chi li confronti con le opportunità creative e innovative di molti nuovi progetti resi possibili dai cambiamenti digitali. Ma al tempo stesso gli editori di diversi dei maggiori giornali italiani non hanno come essenziale priorità la sostenibilità economica, e sono interessati più che in altri paesi a che quei giornali siano strumenti di potere, di relazioni e di promozione di altri interessi. E questo solleva chi li dirige da una parte del carico di stress conseguente alle perdite di ricavi, lasciandoli comunque con la frustrazione di una perdita di qualità giornalistica, dovuta alla riduzione dei costi e alle cessioni di spazio agli interessi pubblicitari.
L’impressione attraverso le conversazioni che capita di avere – ma sarebbe interessante una ricerca più scientifica – è che fuori dalle grandi redazioni (dove ci sono ovviamente un’identificazione e un’appartenenza più forti con la propria testata) dirigere un grande giornale tradizionale non sia più un’ambizione così unanime per chi lavora nel giornalismo. Soprattutto in assenza di editori che dicano ai loro direttori, o direttrici: “mi fido di te, cambiamo tutto e diamoci un obiettivo di quel che saremo tra cinque anni, senza spaventarci di cosa succederà tra cinque mesi”.
Fine di questo prologo.
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