domenica 26 Ottobre 2025

Charlie, negligenza

Proteggere Sigfrido Ranucci è una priorità e un’intenzione ovvia e condivisa. Ritirare le denunce per diffamazione che lo riguardano è una scelta che in questo momento esprimerebbe solidarietà nei suoi confronti e aiuterebbe una persona che è vittima di un attacco infame. Mentre far diventare quello che è successo un precipitoso stravolgimento delle regole sulla diffamazione sarebbe l’ennesimo caso di reazione superficiale ed emotiva a un fatto di cronaca. Non succederà, naturalmente, e tutto il dibattito in corso serve solo ad alimentare le polemiche partigiane quotidiane e le demagogie di una parte della politica e dei giornali. Inoltre, per quello che sembra finora, l’attentato a Ranucci confermerebbe che le minacce reali alla libertà di informazione in Italia vengono dalla criminalità comune o organizzata, piuttosto che dalla politica: ma ogni giorno si litiga sulla seconda e ci si occupa poco della prima, che non offre sufficienti occasioni di litigio.
Quindi si potrebbe provare a rendere un po’ più sensato e lucido il dibattito.
Ci ha provato sul Corriere della Sera, martedì, Caterina Malavenda, illustre avvocata che è spesso ospitata su quel giornale per via della sua esperienza da difenditrice dei suoi giornalisti in cause di diffamazione (quest’anno ci ha scritto un libro). Malavenda accantona la proposta ad personam che riguarda Ranucci (per ragioni di efficacia più che di correttezza) e ne fa un’altra, che sintetizza così: “Ed allora ecco una proposta semplice e risolutiva: limitare la diffamazione penalmente rilevante e i conseguenti danni risarcibili alla sola diffusione volontaria di fatti falsi, punendola severamente”.

Una prima perplessità è generata dall’espressione “fatti falsi”: la diffamazione infatti non implica la falsità di quello che è diffamante, né che si tratti di “fatti”. Si può infatti diffamare anche pubblicando fatti veri e soprattutto pubblicando opinioni, e questa definizione di Malavenda esime da responsabilità chi scriva giudizi infamanti anche molto pesanti e inaccettabili contro qualcuno. La condanna contro la prima pagina di Libero che definì “Patata bollente” Virginia Raggi non sarebbe possibile; idem per la condanna di chi chiamò Antonio Scurati “uomo di M”: difficile chiamare “fatti” – veri o falsi – quelle espressioni. Può darsi che questa sia un’intenzione di Malavenda, ma la protezione fino a questi punti della libertà d’espressione meriterebbe una discussione maggiore. Se invece quello che propone è di sottrarre a giudizi “penali” questo genere di cause, destinandole solo ai tribunali civili, la proposta ha una sua ragionevolezza: a patto che dopo non arrivi un nuovo allarme per l’uso delle richieste di risarcimenti esagerati nelle cause civili. Qualche strumento di difesa i diffamati devono conservarlo.

Perché può darsi che Malavenda abbia voluto esporre l’idea nella sbrigativa sintesi di un articolo e che ne abbia pensieri in realtà più articolati (tra l’altro, a suo onore, la sua idea le farebbe probabilmente perdere un sacco di lavoro): però la sua proposta è fin troppo “semplice e risolutiva”. E non sembra tenere conto di almeno due cose. La prima è la difficoltà del riconoscimento di cosa sia una “diffusione volontaria di fatti falsi”: che si immagina significhi la consapevolezza della loro falsità (tutte le diffusioni di fatti sono volontarie, sui giornali). Consapevolezza che sarebbe piuttosto difficile verificare e dimostrare in tribunale.
E qui c’entra anche la seconda cosa: ed è che un fattore rilevantissimo dei contenuti potenzialmente o realmente diffamanti pubblicati dai giornali italiani, o di quelli falsi (le due cose sono distinte, come abbiamo detto, ma con estese sovrapposizioni), è quella che si chiama “negligenza”. Che è un limite peculiare della cultura giornalistica nazionale, rispetto agli altri paesi (compresi gli Stati Uniti che Malavenda cita a esempio nel suo articolo, e che la negligenza la contemplano e perseguono): sono negligenza la trascuratezza nel pubblicare, la limitatezza delle verifiche, la scarsa prudenza, le scelte impulsive per ottenere attenzioni e click. C’è una frequente “irresponsabilità” nel lavoro giornalistico italiano, che deriva dalla sua storia e dalla scarsa sedimentazione di rigori presenti in altri paesi. E le regole sulla diffamazione sono anche un argine – modesto – alle conseguenze di questa irresponsabilità: che vengano usate spesso a scopo intimidatorio – soprattutto da politici, grandi aziende e magistrati: “potenti” di vario genere – è un problema da affrontare, ma limitarne la disponibilità per i realmente diffamati, e il beneficio per i lettori con aspettative di correttezza e accuratezza, non sarebbe una gran soluzione.

Fine di questo lungo prologo.

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