domenica 23 Febbraio 2025

Charlie, emergenze

Quindici giorni fa, nella sua newsletter sui media americani che spesso citiamo su Charlie, l’ex giornalista di CNN Oliver Darcy ha criticato quello che secondo lui è un atteggiamento non sufficientemente combattivo contro gli interventi repressivi delle libertà e dei diritti da parte di Donald Trump, nelle maggiori redazioni del suo paese. Il suo commento mostra bene quali sono le due “correnti di pensiero” sul ruolo del giornalismo in tempi di attacchi alla democrazia e ai diritti. “Siamo chiari: i giornalisti sul campo fanno quello che possono nel caos che sta definendo il secondo mandato di Trump, in mezzo a licenziamenti e tagli che stanno lacerando il business dei giornali. Potete trovare ottimi articoli in giro, e pezzi che verificano quello che Trump e la sua amministrazione sostengono. Basta cercare su Google”. Ma Darcy dice che chi governa e dirige i giornali: “sta largamente abdicando ai propri doveri. Non è che le loro testate non stiano coprendo il secondo mandato di Trump, è che le leadership di quelle testate non stanno decidendo di presentare le azioni di Trump come una esplicita emergenza che avrà estese conseguenze sulla vita e sulla democrazia americane.
La maggior parte dei direttori dei giornali non sta ordinando dei titoli urlati a caratteri cubitali. Nei telegiornali non si superano i consueti 30 minuti di news. E si lascia che i talk show in tv mantengano l’irresponsabile criterio di “ascoltare entrambe le parti”, come se una di queste parti non stesse violando la legge, distruggendo regole consolidate, e minacciando i principi fondamentali del paese. Notizie eccezionali vengono raccolte da un sistema costruito per dare titoli normali”.

Darcy non è un pericoloso estremista, come si dice: è l’autore di una delle più seguite newsletter sui media, proveniente da CNN. Quello che predica e chiede è rappresentativo di un’idea molto diffusa su come debba comportarsi il giornalismo in contesti di crisi democratica: all’interno di un dibattito che era iniziato già durante il primo mandato di Trump. È un’idea a cui si oppone quella di chi invece ritiene che il ruolo del giornalismo sia proprio non diventare anch’esso emergenziale, non uscire dalle proprie regole e dai propri rigori, nemmeno quando altri lo fanno e arrivano a minacciare la democrazia e il giornalismo stesso. Anzi, soprattutto, quando questo avviene. Attribuendosi il ruolo di riportare fatti e notizie con correttezza, completezza e affidabilità, e mantenendo così la credibilità necessaria presso i lettori, in tempi in cui la demolizione della credibilità dei mezzi di informazione è una delle priorità di chi sta minacciando la democrazia. E ritenendo che le “battaglie in difesa della democrazia” si conducano facendo buona informazione e creando le condizioni per cui i lettori si formino delle opinioni informate e reagiscano di conseguenza, piuttosto che indicando loro le opinioni e le reazioni da avere. Ma Darcy e chi la pensa come lui sostengono che questa sia una posizione debole e perdente, e che rischi di trovarsi a essere indulgente e complice, pavida: anche quando sia in buona fede.
Questa discussione è stata molto divisiva in questi anni, e il suo maggiore esempio è quello del 
New York Times, che dopo vivaci conflitti interni ha scelto col suo ultimo direttore di tornare decisamente sul secondo approccio.

La discussione è ulteriormente interessante vista da qui. In Italia le scelte predicate da Darcy sono la norma, non l’eccezione: la grande maggioranza dei giornali adotta esattamente quei modi di informare emergenziali e battaglieri. Che si tratti di criticare governo e poteri, o di difenderli, o anche di raccontare altro. Titoli urlati a grandi caratteri e a tutta pagina, toni aggressivi, insistenza sulle minacce, sugli allarmi, sui pericoli. Quelli che li hanno adottati soprattutto contro le maggioranze di centrodestra e le presunte minacce alla democrazia, in questi decenni, non sembrano però avere ottenuto grandi risultati, anzi. E al contrario della situazione americana, da noi quell’approccio sembra diventato ordinario per quasi tutti: non generato da un’emergenza, ma viceversa tenuto a generare emergenze quotidiane per giustificare i toni. Col risultato di perdere credibilità e di spostare le proprie attrattive per i lettori soprattutto sull’appartenenza identitaria a un fronte o a un altro (ormai ci sono “fronti” rispetto a quasi ogni genere di notizia).

Ma la discussione americana è comunque interessante, per chi voglia capire e giudicare gli equilibri e le scelte diverse nel lavoro dei giornali, a prescindere dai singoli casi nazionali. È una discussione che riguarda anche molti altri ambiti, per primo quello della politica: quanto le situazioni eccezionali impongano deroghe eccezionali alle regole, quanto il fine giustifichi i mezzi, quanto “à la guerre comme à la guerre”. E quindi quando decidere che c’è davvero una guerra, perché se lo si fa ogni giorno tutto è una guerra e niente è una guerra.
E qui di nuovo torna familiare questa discussione, in un paese dove si dichiarano emergenze e deroghe da decenni, e le emergenze e le deroghe sono la norma, 
quotidiana .

Fine di questo lungo prologo.

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