Non si può credere all’esperimento della prigione di Stanford

Lo psicologo Philip Zimbardo, che nel 1971 lo mise in piedi per poi diventare famosissimo parlandone in giro, mentì su come fu realizzato

Una scena del film sull'esperimento della prigione di Stanford "Effetto Lucifero" (2015)
Una scena del film sull'esperimento della prigione di Stanford "Effetto Lucifero" (2015)

Negli ultimi anni la psicologia sociale, quella branca della psicologia che studia il comportamento delle persone in gruppo, è entrata in una grossa crisi dopo che è stato messo in discussione il metodo usato in gran parte dei suoi studi. Nel 2011 tre studiosi di psicologia si sono accorti che spesso chi conduceva un esperimento di psicologia sociale trascurava i dati che smentivano la propria ipotesi di partenza: ne è venuto fuori un intenso dibattito che ha cambiato radicalmente la vita di alcuni ricercatori e ne ha spinti altri a replicare alcuni famosi esperimenti per confermare o meno i loro risultati.

In questo contesto di auto-analisi dell’intero campo di studi si è riparlato anche di esperimenti famosi del passato: tra le altre cose, un libro di un ricercatore francese uscito ad aprile e un articolo pubblicato su Medium il 7 giugno hanno completamente messo in discussione il celebre esperimento della prigione di Stanford, quello che cercò di ricreare le dinamiche di un carcere dividendo un gruppo di volontari tra carcerati e secondini, definendolo «una bugia».

L’esperimento della prigione di Stanford, in breve
Fu realizzato all’Università di Stanford nell’agosto del 1971 per iniziativa del professore di psicologia Philip Zimbardo, che allora aveva 38 anni. Oltre a Zimbardo e ad alcuni suoi studenti, che ne supervisionarono l’esecuzione, parteciparono all’esperimento 24 studenti, tutti maschi e bianchi. Furono divisi in modo casuale tra carcerati e secondini. Per sei giorni i carcerati furono tenuti in tre “celle” ricavate in un seminterrato di uno degli edifici dell’università; erano vestiti con lunghe tuniche bianche con un numero sopra e in testa dovevano tenere una calza da donne che simulasse l’effetto di una rasatura.

I secondini erano divisi in turni in cui si occupavano di pattugliare il seminterrato e facevano svolgere ai carcerati dei compiti, per esempio pulire le proprie “celle”. Indossavano continuamente occhiali scuri che impedissero ai carcerati di vedere i loro occhi. Avevano il divieto di essere violenti, ma quello che successe, almeno per ciò che si disse in seguito, fu che ci furono varie forme di violenza psicologica esercitate dai secondini sui carcerati: le prove di tale violenza si videro nelle reazioni dei carcerati, che furono filmate. Sulla fidanzata di Zimbardo gli episodi ebbero un tale impatto che chiese la chiusura anticipata dell’esperimento, che avrebbe dovuto durare due settimane.

– L’esperimento della prigione di Stanford, la versione lunga

Al termine dell’esperimento Zimbardo disse che quanto era successo provava che qualsiasi persona, messa in una posizione di grande potere su altre persone, si sarebbe trasformata in un aguzzino solo per via della situazione e non in relazione a predisposizioni personali.

L’importanza dell’esperimento di Stanford nel tempo
La teoria di Zimbardo divenne molto popolare in Europa per spiegare il comportamento di molte persone durante la Seconda guerra mondiale, per esempio nei campi di concentramento, ed ebbe un forte impatto negli Stati Uniti riguardo al dibattito sul carcere: anche perché un giorno dopo la fine dell’esperimento sei persone morirono in seguito al tentativo di fuga di un attivista nero dal carcere di San Quentin, in California, e tre settimane dopo ci fu una rivolta carceraria nella prigione di Attica, nello stato di New York, che portò alla morte di 43 persone.

Molti che prima dell’esperimento sostenevano che le prigioni dovessero essere rivolte innanzitutto alla riabilitazione dei detenuti, iniziarono a pensare che le prigioni fossero inevitabilmente disumane e dannose per i carcerati e che si dovessero costruire al loro posto delle diverse comunità di riabilitazione. Questa posizione però era osteggiata dai conservatori, secondo cui il carcere doveva servire soprattutto a difendere la società: in un certo senso questa fu la posizione che prevalse, dato che le prigioni americane non furono riformate e aumentò solo – e di molto – il numero di persone al loro interno. Oggi la maggior parte dei criminologi non pensa che le prigioni siano luoghi per forza dannosi, ma che sperimentando nuovi modelli, come già si fa in alcuni paesi, potrebbero davvero avere una funzione di riabilitazione.

In ogni caso Zimbardo divenne molto famoso per l’esperimento della prigione – nel 2001 fu eletto presidente dell’American Psychological Association, tra le altre cose – e tornò a essere molto presente in TV nel 2004 quando furono scoperti gli abusi sui prigionieri iracheni compiuti delle guardie statunitensi nel carcere di Abu Ghraib. In seguito a questa sua nuova popolarità, Zimbardo scrisse il saggio L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, che uscì negli Stati Uniti nel 2007 e fu un bestseller. Nel 2015 invece è uscito un film sull’esperimento, intitolato Effetto Lucifero in italiano, per la cui realizzazione Zimbardo fece da consulente.

Perché i risultati dell’esperimento sono «una bugia»
L’esperimento della prigione fu contestato già poco dopo la sua pubblicazione e anche in seguito, prima di quest’anno. Innanzitutto fu criticato il fatto che i risultati ottenuti da Zimbardo furono pubblicati sul New York Times Magazine e non su una rivista scientifica dopo essere stati sottoposti all’analisi di altri psicologi sociali. Molti studiosi poi sostennero che per il modo in cui l’esperimento era stato condotto non poteva davvero definirsi un esperimento, ma piuttosto un happening, una performance artistica. Negli anni altre critiche si susseguirono, in particolare riguardo a questioni di metodo: per esempio, si accusò Zimbardo di non aver impostato l’esperimento in modo sufficientemente rassomigliante all’ambiente di una vera prigione e si criticò il modo in cui erano stati scelti i partecipanti all’esperimento.

Poi nel 2001 due professori di psicologia britannici, il professor Alex Haslam dell’università di Exeter e il professor Steve Reicher dell’università di St. Andrews, cercarono di replicare l’esperimento di Stanford. Il loro esperimento – soprannominato “BBC Prison Study” perché nel 2002 fu trasmesso da BBC – durò nove giorni, due meno del previsto, e le cose andarono in modo diverso rispetto allo studio del 1971: i secondini non si adattarono mai facilmente al loro ruolo, i carcerati si ribellarono il sesto giorno riuscendo a prendere il controllo della situazione, poi gli attriti all’interno tra di loro portarono a un nuovo regime in cui alcune guardie si coalizzarono con alcuni detenuti. A quel punto si creò un sistema di potere simile a quello della prigione di Stanford e i ricercatori decisero di interrompere l’esperimento.

Haslam e Reicher giunsero a conclusioni diverse rispetto a Zimbardo: secondo loro lo studio dimostrava che le condizioni per la creazione di una tirannia sono che si formi autonomamente un gruppo in cui c’è una leadership ben definita, e, secondariamente, che il gruppo definisca un progetto autoritario con cui pensa di risolvere problemi concreti. Per Haslam e Reicher, Zimbardo falsò l’esperimento del 1971 indirizzando i secondini verso il loro ruolo e ponendosi così di fatto come loro leader. Nel 2006, dopo aver provato a impedire la pubblicazione di un articolo sul “BBC Prison Study” sul British Journal of Social Psychology – almeno stando a Reicher – Zimbardo si difese da questa accusa sulla stessa rivista dicendo che i due psicologi britannici non avevano replicato il suo esperimento in modo accurato.

Già nel 2005 però erano emerse delle informazioni sull’influenza subita dai secondini durante l’esperimento. Carlo Prescott, un ex detenuto afroamericano del carcere di San Quentin che aveva lavorato con Zimbardo come consulente nella realizzazione dell’esperimento, scrisse sullo Stanford Daily che molte delle cose che i secondini avevano fatto per tormentare i carcerati erano basate sulla sua esperienza in carcere ed erano state loro suggerite dai ricercatori, non inventate dai partecipanti all’esperimento.

A tirare di nuovo fuori questo e altri racconti su come andarono veramente le cose è stato prima di tutto il libro Histoire d’un mensonge: enquête sur l’expérience de Stanford (in italiano, “Storia di una menzogna: inchiesta sull’esperimento di Stanford”) del ricercatore di scienze sociali Thibault Le Texier. Le Textier ha fatto una ricerca negli archivi dell’Università di Stanford e tra le altre cose ha trovato la trascrizione di una conversazione avvenuta tre giorni dopo l’inizio dell’esperimento tra Zimbardo e i suoi collaboratori: secondo questo documento Zimbardo raccontò di aver detto a due carcerati che volevano abbandonare l’esperimento che non potevano a meno che non avessero bisogno di aiuto medico o psichiatrico. Secondo la trascrizione Zimbardo disse anche: «Penso che credano davvero di non poter uscire».

Oltre a mostrare un dubbio senso etico da parte di Zimbardo, la trascrizione prova due cose: la prima è che Zimbardo negli anni ha mentito sulle modalità di realizzazione dell’esperimento, dato che aveva sempre detto che i partecipanti erano liberi di lasciare l’esperimento in qualsiasi momento; la seconda è che alcune delle sue conclusioni sul risultato dell’esperimento erano basate su informazioni erronee. Lo ha spiegato il giornalista americano Ben Blum in un articolo su Medium, pubblicato nella raccolta Trust Issues.

Blum ha conosciuto Zimbardo per ragioni familiari: nel 2006 suo cugino, allora una recluta del corpo militare dei Ranger di 19 anni, compì una rapina a mano armata in una filiale della Bank of America di Tacoma insieme a un suo superiore e a tre altri uomini. Per difendersi il cugino di Blum raccontò che era stato indotto a credere dal suo superiore che si trattasse di un’esercitazione, non di una rapina: Zimbardo testimoniò al suo processo per suffragare questa spiegazione con le sue teorie basate sull’esperimento della prigione e anche grazie alla sua testimonianza il cugino di Blum ottenne una pena ridotta.

Quando Blum decise di scrivere un libro sulla storia di suo cugino – uscito poi lo scorso settembre – parlò a lungo con lui e scoprì che aveva mentito sulla rapina: all’epoca sapeva quello che stava facendo e aveva deciso di partecipare volontariamente. A quel punto Blum decise di indagare sulla teoria di Zimbardo, che di fatto aveva solo permesso a suo cugino di scampare parte della propria pena e nascondere per anni le proprie responsabilità.

Studiando la storia dell’esperimento della prigione e parlando con alcune delle persone che vi avevano partecipato Blum scoprì altre cose che non tornavano, prima fra tutte quella di Douglas Korpi, il carcerato che in uno dei video dell’esperimento di Stanford, girato 36 ore dopo il suo inizio, si vede colpire più volte una porta e gridare:

«Cristo, sono incazzato nero! Non l’avete capito? Voglio uscire! È tutta una stronzata! Non posso sopportare un’altra notte! Non ne posso più!».

Negli anni Zimbardo ha usato questa reazione di Korpi, descritta come un esaurimento nervoso, per spiegare gli effetti dei trattamenti subiti dai carcerati per mano dei secondini. Il problema è che Korpi, poi diventato uno psicologo criminale, non stava avendo un esaurimento, stava solo fingendo di averlo per poter lasciare l’esperimento e andare a studiare per un esame: quando si era offerto volontario per partecipare all’esperimento credeva che lo avrebbero lasciato studiare, mentre così non era stato. Dopo aver capito che non avrebbe potuto prepararsi al suo esame a causa dell’esperimento, Korpi aveva finto di avere mal di stomaco, dopodiché finse l’esaurimento: ma non fu traumatizzato dall’esperienza del “carcere”. Korpi ha raccontato queste cose a Blum a cui ha anche detto che l’unica cosa della situazione che lo spaventò fu sapere di non avere la libertà di andarsene. Anche un altro detenuto, Richard Yacco, ha raccontato cose simili a Blum.

In risposta a queste testimonianze Zimbardo ha detto a Blum che Korpi e Yacco gli avevano mentito, poi ha cambiato la sua versione dicendo che nel consenso informato firmato dai partecipanti all’esperimento prima del suo inizio c’era scritto che l’unico modo per lasciarlo era pronunciare la frase «Lascio l’esperimento» e che Korpi e Yacco non l’avevano pronunciata. Recuperata una copia del foglio firmato all’epoca dai partecipanti allo studio però Blum ha scoperto che non era così e a quel punto, dopo la pubblicazione del libro di Le Textier, Zimbardo ha ammesso che aveva istruito i suoi collaboratori a dire ai carcerati che non potevano uscire per evitare che l’esperimento finisse subito.

Questo comunque non è l’unico problema dell’esperimento della prigione. È anche venuto fuori che molte delle cose che i secondini fecero subire ai carcerati furono loro suggerite – oltre che da Prescott – da David Jaffe, uno degli studenti di Zimbardo che collaborarono con lui alla realizzazione dell’esperimento e la prima persona ad avere l’idea di fare uno studio del genere, tre mesi prima. Durante una riunione iniziale con i partecipanti all’esperimento scelti per essere secondini, Jaffe suggerì loro dei modi per comportarsi in modo sadico, spinto da una considerazione di Zimbardo sul fatto che la cosa più difficile dell’esperimento sarebbe stata far sì che i secondini si comportassero da secondini. Inoltre durante l’esperimento Jaffe corresse esplicitamente i secondini che non si comportavano in modo abbastanza duro, di fatto rendendo il loro comportamento non spontaneo e dunque non dettato unicamente dalla situazione come poi avrebbe concluso Zimbardo. Lo stesso Jaffe raccontò tutte queste cose in una relazione sempre conservata negli archivi di Stanford.

In aggiunta alle testimonianze di Korpi, Yacco e Jaffe c’è poi quella di Dave Eshelman, uno dei secondini. Nel 2011, intervistato dal periodico degli ex allievi di Stanford per il quarantesimo anniversario dell’esperimento, raccontò che il suo comportamento non fu casuale:

«Fu programmato. Partecipai con un piano ben definito in testa, quello di provare a forzare la situazione, fare in modo che succedesse qualcosa, in modo che i ricercatori avessero qualcosa su cui lavorare. […] Al college e alle superiori partecipavo a tutte le recite teatrali. Si trattava di qualcosa a cui ero molto abituato: immedesimarsi in un’altra personalità prima di entrare sul palcoscenico».

Secondo Haslam e Reicher, gli psicologi britannici che replicarono l’esperimento, Eshelman e gli altri secondini non tormentarono i carcerati per le ragioni addotte da Zimbardo ma perché si identificavano con lui e con i suoi collaboratori e facevano ciò che loro gli dicevano.

Con Blum Zimbardo ha ammesso che Jaffe aveva aiutato i secondini a scrivere le regole a cui i carcerati dovevano obbedire – prima aveva sempre detto che le avevano scritte da soli – e ha anche ammesso che all’epoca aveva delle ragioni per volere che l’esperimento desse come risultato l’idea che le prigioni fossero sbagliate: influenzato da Prescott, tra le altre cose, pensava che il sistema carcerario andasse riformato e che le carceri fossero uno spreco di tempo, denaro e vite. Per questa ragione volle realizzare lo studio e per questa ragione forse non si comportò in modo obiettivo nel farlo.