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  • Venerdì 9 febbraio 2018

Quella dannata mela

Un nuovo saggio di Gianluca Briguglia si chiede cosa ci sarebbe successo "se Adamo ed Eva non avessero peccato"

I dipinti "Adamo" ed "Eva" di Albrecht Dürer esposti nel 2005 al Prado di Madrid (AP Photo/Paul White)
I dipinti "Adamo" ed "Eva" di Albrecht Dürer esposti nel 2005 al Prado di Madrid (AP Photo/Paul White)

Gianluca Briguglia, storico della Filosofia e blogger del Post, ha pubblicato un nuovo saggio intitolato Stato d’innocenza (Carocci Editore) e dedicato all’ipotesi su Adamo ed Eva che lui stesso spiega così:

«Che cosa sarebbe successo se i progenitori non fossero caduti, cioè se non avessero peccato, che cosa sarebbe successo se si fossero mantenuti saldi nello stato d’innocenza in cui erano stati posti?».

Questa è l’introduzione del libro.

*****

A dispetto apparente dei suoi personaggi, la storia che stiamo per raccontare va sotto il segno del realismo. Certo non si direbbe: pensando ad Adamo, Eva e allo stato d’innocenza le prime cose che ci vengono in mente sono forse le immagini dei pittori. Prima di tutto Il peccato originale (1424-25) di Masolino nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, affresco ritoccato due secoli dopo per inserire alcune strategiche foglie di fico che all’origine non c’erano – e che non esistono più, dopo un recente restauro. Oppure ci viene in mente la scena drammatica della Cacciata dei progenitori dall’Eden (1424-25) di Masaccio, nello stesso luogo, in cui il pianto di Adamo ed Eva si esprime con una forza tragica e intensa. Oppure ancora ecco riaffiorare le immagini del Giardino delle delizie (1490-1500) al tempo stesso favolistico e perturbante di un Bosch in cui non è facile sbrogliare la matassa dei riferimenti simbolici e delle immagini misteriose che popolano l’Eden; o quel giardino pacificato di animali di tutti i tipi, colto nell’attimo che precede la disobbedienza di Adamo e di Eva e che Rubens e Bruegel, nei primi anni del Seicento, hanno consegnato come modello di ogni esotismo successivo.

E che dire poi di quegli incantevoli, e però a volte molto concreti, dibattiti scientifici, medievali e moderni, sulla natura e l’ubicazione geografica del paradiso terrestre, che hanno nutrito l’immaginario geografico dell’Occidente e che oggi ci fanno sorridere (anche se dovrebbero meravigliarci)? Da luogo simbolico, allegorico, spirituale, che a volte si collega ai miti antichi dell’età dell’oro, l’Eden diventa concreto, fisico, geografico, mappabile, anche se perduto. Lutero lo considererà luogo reale, ma distrutto dal diluvio, da cui Dante lo aveva invece salvato ponendolo su un monte altissimo; Calvino lo ricollocherà tra il Tigri e l’Eufrate, mentre i monaci irlandesi di un Medioevo antico lo avevano pensato in un’isola del Nord, toccata dal viaggio del mitico san Brandano; e i filosofi medievali delle università lo considerano invece collocato nelle zone più temperate del globo, che Aristotele aveva indicato come le più abitabili e le più gradevoli.

Domande bizzarre di una mentalità abituata alle favole? Anzi, peggio, favole di secoli rozzi «che si volsero in religione» con una teoria di chimere, fantasticherie e assurdità, come scriveva Fontenelle nella prima metà del Settecento (che qui si riferisce però ai miti greci)? Può darsi, e non ci sarebbe nulla di male, ma a guardare le cose un po’ più da vicino, come faremo nei prossimi capitoli, accettando linguaggi e precomprensioni di un’epoca che dopo tutto ha dato vita all’Europa, forse capiremo che non si tratta solo di questo.

Quello che a noi interessa qui è però una domanda più specifica, una questione più particolare, che scaturisce da un certo tipo di interrogazione che filosofi e teologi operarono sulle vicende raccontate su Adamo ed Eva nel libro della Genesi: che cosa sarebbe successo se i progenitori non fossero caduti, cioè se non avessero peccato, che cosa sarebbe successo se si fossero mantenuti saldi nello stato d’innocenza in cui erano stati posti? Questa interrogazione produce altre domande e problemi, a seconda della direzione che essa assume nei vari contesti di indagine: nello stato d’innocenza gli esseri umani sarebbero stati come noi? Avrebbero avuto una capacità di conoscenza libera dagli impedimenti della materia? Che relazioni avrebbero avuto con gli animali e con il creato? Come sarebbe stato il loro corpo? Come avrebbero generato i propri figli? E soprattutto, che differenze intercorrono tra “il prima”, cioè nello stato d’innocenza, e “il dopo” quell’evento tragico che è causato dalla caduta?

Domande per noi ancora curiose, forse, ma che già ci mostrano l’avvicinamento all’idea di una duplice antropologia, di una doppia natura umana da indagare, di una specie di strana ma concreta disamina della natura degli esseri umani. La storia che dovremo ricostruire (almeno in alcune sue linee) – che è la storia dei dibattiti che filosofi e teologi hanno condotto sulle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e sui limiti e le possibilità della convivenza umana, cioè della politica – è posta sotto il segno del realismo, l’abbiamo promesso, ma prima di mostrare perché è bene fare ancora qualche precisazione.

È infatti già chiaro che questo tipo di interrogazione lega insieme lo stato d’innocenza – come momento di manifestazione di una natura umana più autentica e più vera – e lo stato postlapsario, cioè conseguente alla caduta determinata dal peccato di Adamo ed Eva, ma questa visione non può essere troppo rapidamente associata o confusa con una teoria della decadenza dall’età dell’oro, come in certi miti antichi, o con una semplice forma di primitivismo. È pur vero che i miti delle origini filtrano nella comprensione dello stato edenico attraverso le teorie di un’età felice primigenia che si corrompe nella storia e che segna lo splendore di un’umanità antica ormai smarrita – e che nel pensiero moderno e contemporaneo prenderà anche la strada di un desiderio di ritorno alla natura.

Troviamo queste immagini nell’evocazione dell’età di Saturno, in Ovidio, e in Virgilio anche nella forma della profezia, e pure in un certo stoicismo noto alla patristica, che lo utilizza. A questo tipo di finzione mitica è spesso associata l’idea di un passato primitivo migliore e buono, che a volte ha anche una funzione normativa, almeno in teoria, e che più spesso esprime semplicemente la nostalgia per uno stato di natura immaginato e desiderato, con valore di mito culturale.

Se questi modelli rimangono sempre presenti e come impliciti nelle epoche successive, almeno come materiale a disposizione dell’immaginario filosofico, e soprattutto letterario e poetico, e se li troviamo, inutile negarlo, anche in alcune narrazioni dello stato d’innocenza, essi tuttavia non si confondono concettualmente con il congegno filosofico-politico di cui parleremo nel corso di questo libro.

Gli autori che prenderemo in considerazione non sono infatti interessati a proiettare in un orizzonte passato e favoloso tutte le nostalgie e i desideri di perfezione che riescono a immaginare; ancora meno vogliono costruire utopie politiche – non è ancora il tempo – o indugiare in fantasie morali e sociali. Al contrario sono in primo luogo impegnati a comprendere quali effetti il peccato originale – cioè il peccato che Adamo ed Eva hanno commesso coinvolgendo tutti i loro discendenti – abbia determinato nella natura umana come oggi la conosciamo.

La disobbedienza dei progenitori ha infatti modificato la natura dell’uomo, rendendola preda di paure, bisogni, istinti, pulsioni antisociali che assediano ogni essere umano e rendono la convivenza un progetto instabile e sempre incompleto. Il peccato originale determina dunque una cesura, un salto, che segna la distanza irrimediabile tra due stati dell’uomo, quello della natura innocente e quello della natura decaduta, lapsa, che però in questo modo vengono a implicarsi a vicenda, tanto da dover essere spesso analizzate congiuntamente. Lo stato d’innocenza presuppone infatti, nell’analisi di questi autori, la condizione umana storica, la nostra, come la conosciamo, la quale a sua volta si comprende solo in riferimento alla caduta che la separa dall’innocenza.

Ecco un primo livello di quel realismo che avevamo promesso. Adamo ed Eva non sono qui i personaggi intangibili di una favola filosofica, di un mito, ma gli strumenti che consentono ai nostri autori di analizzare la realtà, con i suoi limiti e le sue trappole costitutive. È ad Agostino d’Ippona (sant’Agostino) che dobbiamo la costituzione più completa e funzionante di un dispositivo intellettuale in grado di modellare una forma di comprensione radicalmente nuova e di tradurre in essa l’esperienza umana, individuale e collettiva. È del resto Agostino che utilizza la nozione di peccato originale – del tutto assente nel racconto della Genesi – per dare corpo a una filosofia della storia e della salvezza di formidabile rigore e grandezza. Sì, perché se il peccato originale, come vedremo, ha deturpato (ma non distrutto) la natura umana, rendendo colpevole ogni singolo essere umano – il quale assume con la propria generazione quella colpevolezza che fu di Adamo e di Eva –, se ha fatto di tutte le generazioni una “materia di dannazione”, allora il limite di ciascuno e di tutti è concettualizzato come colpa.

Del resto la categoria stessa del peccato è universalizzante e ambigua, poiché risultando coestensiva al concetto di natura umana decaduta, accomuna tutti gli uomini nel limite e nella colpevolezza. Anche i bambini sono colpevoli, per il fatto stesso di essere nati. Non basta, perché è con l’idea di un peccato originale di questo tipo che si può comprendere la necessità della grazia divina e dell’incarnazione di Cristo, il secondo Adamo, che rendono l’uomo libero dal debito del peccato.

Certo ha di che sbraitare Voltaire nella voce “peccato originale” del suo Dizionario filosofico sulla totale assenza di questa nozione nella Bibbia e presso gli Ebrei e nel riconoscere che fu Agostino «ad accreditare per primo questa strana fantasia, degna della testa calda e romanzesca di un Africano dissoluto e pentito, manicheo e cristiano, indulgente e persecutore, che passò la vita a contraddire sé stesso» ma non si può non riconoscere che quella del peccato e della grazia, che a esso si lega, delinea una vera e propria logica, una sintassi grandiosa per comprendere il destino dell’uomo. Corollario ulteriore è che il marchingegno intellettuale può condurre a una radicale scoperta, quella della predestinazione, perché se è vero che tutti hanno peccato irrimediabilmente in Adamo, è altrettanto vero che la grazia di Dio si applica con terrificante libertà a chi vuole, senza badare a meriti o sforzi.

Secondo il vescovo Giuliano, che difendeva le idee di Pelagio esattamente contrarie a quelle di Agostino, non è possibile che le colpe di un solo individuo, Adamo, «possano perturbare tutto ciò che è stato istituito con la natura» ed è mostruoso pensare non solo che tutti siano colpevoli per il semplice fatto di esistere, ma soprattutto che non possano, con la loro vita e il loro impegno, avvicinarsi a Cristo e meritare, almeno in parte, la salvezza.

Spingerci oltre ci condurrebbe fuori dal percorso che stiamo tracciando; va invece sottolineato che il congegno agostiniano ha delle conseguenze per il tema politico, che qui ci interessa. Se i progenitori sono caduti, se lo stato d’innocenza è perduto, allora il disordine che questo ha determinato si configura anche come problema politico, o meglio come antropologia politica. In che modo rimediare allo stato di sopra azione e d’incertezza della natura umana, al bisogno, alla potenziale lotta di tutti contro tutti? È ben nota l’idea che il potere, la proprietà, la coercizione, addirittura la guerra possano essere considerati come rimedi alla caduta, perché possono frenare il male del peccato, almeno nei suoi effetti sulla convivenza. Agostino lo ribadisce, e si tratta di concezioni spesso già presenti nel pensiero cristiano. Pensare dunque allo stato d’innocenza, ad Adamo ed Eva, è pensare soprattutto a una posizione di realismo politico, fondata su una specifica antropologia (che può variare).

Ma se vogliamo parlare di realismo dobbiamo pur ammettere che esso si poggia su un senso di realtà certamente particolare. Interessante è infatti che a partire da Agostino, fino a tutto il Medioevo e a gran parte dell’epoca moderna, ci si sia chiesti “Che cosa sarebbe successo se i progenitori non fossero caduti?”, che è anche la domanda chiave della storia che stiamo raccontando. Il quesito è bizzarro, e ci porta al cuore del nostro tema, perché Adamo ed Eva sono davvero caduti. Questa caduta è un fatto. Anzi, sono caduti talmente in fretta che nella cronaca universale del domenicano Vincenzo di Beauvais, tanto per citarne uno tra i molti, si legge che «Adamo ed Eva, a quanto crediamo, proprio nel giorno in cui furono creati, cioè il sesto giorno, peccarono nel paradiso terrestre attorno a mezzogiorno e furono cacciati dal giardino verso l’ora nona».

Insomma, dal punto di vista della credenza religiosa o dell’esegesi, la domanda che abbiamo posto sulla scorta dei filosofi e dei teologi medievali sembra oziosa e inutile, se non addirittura dannosa, dal momento che i progenitori sono caduti. Ma dal punto di vista filosofico è invece strategica, perché si tratta di un’interrogazione controfattuale della realtà. I fatti non bastano per capire la realtà e i suoi limiti.

Chiedersi “che cosa… se…” è infatti un modo per immaginare i nessi causali che legano i fenomeni tra di loro: eliminato il peccato, si dissolverebbe la politica? Se Adamo fosse rimasto saldo, si sarebbe potuta pensare la proprietà? Tolta la  caduta, si annienta anche la gerarchia? Le risposte dei vari autori non sono per nulla univoche e, anzi, sono differenziate e spesso contrastanti e divergenti.

Lo stato d’innocenza come lo osserviamo qui allora non è una favola, anche se è presente in molte “favole” medievali; non è un mito, anche se spesso assume le funzioni che attribuiamo al mito; non è un’esigenza esegetica del testo sacro, anche se è in relazione con i metodi dell’esegesi; non è il semplice elemento di una credenza, anche se è in rapporto con un sistema di credenze; non è neppure un fatto storico, anche se poggia su una storia realmente accaduta, ma è un questionamento filosofico della realtà.

È nella rete di tutti questi elementi che si costituisce infatti la razionalità del discorso sul “prima” e sul “dopo”, sugli e etti del peccato originale, sull’interrogazione non di un fatto, ma di un “come se”, e sui racconti filosofici che ne scaturiscono e producono una certa conoscenza della realtà.

L’elemento fittizio (o sarebbe meglio chiamarlo fittivo, per la sua capacità di costruire un orizzonte di comprensione del politico) è dato proprio da quanto di più filosofico troviamo nel discorso, cioè l’uso dello stato d’innocenza come luogo per pensare congiuntamente la realtà postlapsaria, cioè la nostra natura. È anche questo elemento fittivo che rende razionale il discorso su Adamo ed Eva e che ci restituisce una possibile comprensione della realtà. Del resto non c’è nulla di più storico della realtà (e della razionalità); e se pure sarebbe troppo dire (e potrebbe essere inteso dal lettore troppo drammaticamente) che ciò che questi autori costruiscono è una sorta di episteme politica, bisogna pur osservare che essi agiscono all’interno di una conformazione intellettuale che contribuiscono a costituire e che porta anche al cuore della prima modernità.

Certo non si tratta di un modello univoco, non tutti gli autori hanno le stesse finalità, né gli stessi interessi. Ma da quel questionamento, che la scolastica in certo modo formalizza e rende stabile attraverso i commenti alle Sentenze di Pier Lombardo, discendono questioni e direzioni diverse, come vedremo. Il modello agostiniano è per esempio messo sotto forte pressione dalle nuove visioni di Tommaso d’Aquino sulla natura umana; se l’antropologia agostiniana rimaneva marcata dalla coppia natura instituta-natura lapsa, in Tommaso d’Aquino il conto delle perdite della caduta andava rifatto e sul piano filosofico-politico ne risultava uno stato d’innocenza aristotelico, con l’uomo animale politico n dall’inizio. In altri casi le vicende di Adamo produrranno modelli di interpretazione storica del potere, come osserveremo nelle sezioni dedicate a Tolomeo da Lucca e Marsilio da Padova, che sono però ben coscienti del “salto” prodotto dal peccato, o a Filmer, che si disinteressa di quella premessa ontologica per concentrarsi su una vera e propria filiazione del potere da un Adamo re. C’è però una domanda che rimane spesso implicita, ma che in alcune filiazioni del problema, forse anche interagendo con altri modelli, diventa chiara e pretende spazio, quella sulla possibilità di tornare ad Adamo, o almeno di recuperare alcuni frammenti – certo modificati ma non inerti – dello stato d’innocenza. Ne troviamo alcune risposte in certi ambienti francescani (o antifrancescani), che potremmo tacciare di essere fantasticherie, ma che in realtà sono cariche di un loro potenziale rivoluzionario (quando non eversivo), o anche nell’idea di un dominio, pre e postlapsario, che è essenzialmente relazione, che è come la luce del sole che investe tutti, è come l’aria che non possiamo non condividere, è come il mare che non può esaurirsi.

Insomma verrebbe voglia di chiedersi, parafrasando il titolo di un libro famoso, “i medievali (e i moderni) hanno creduto ai loro miti?”. La risposta che potremmo azzardare, e vedrà il lettore se essa è pertinente, è che, sì, hanno creduto ai loro miti, perché erano interessati alla realtà.