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  • Martedì 31 ottobre 2017

Le novità sul caso Russia, spiegate bene

Cosa vogliono dire gli arresti di ieri, a che punto è l'indagine e cosa può diventare

di Francesco Costa

Donald Trump durante la festa di Halloween alla Casa Bianca
(Chip Somodevilla/Getty Images)
Donald Trump durante la festa di Halloween alla Casa Bianca (Chip Somodevilla/Getty Images)

L’indagine giudiziaria sul ruolo avuto dalla Russia alle ultime elezioni presidenziali statunitensi ha avuto ieri due importanti sviluppi, che fanno capire – come si poteva già immaginare, ma ora lo sappiamo per certo – che quest’inchiesta andrà avanti ancora a lungo e sarà come minimo un grosso problema da gestire per l’amministrazione Trump. Le notizie riguardano tre ex collaboratori di Donald Trump: uno è stato arrestato (a luglio, ma lo abbiamo scoperto ieri) mentre due ieri si sono consegnati alle autorità. Nella sostanza è la stessa cosa: nei casi di reati non violenti, se non c’è pericolo di fuga, la prassi delle autorità è invitare la persona incriminata a consegnarsi, per poi eventualmente rilasciarla su cauzione. Per capire il significato di queste notizie bisogna però avere chiare un paio di informazioni di contesto: cominciamo da lì.

Chi sta indagando
L’inchiesta è guidata dal procuratore speciale Robert Mueller, che ha 72 anni ed è una persona molto rispettata negli Stati Uniti. Mueller è stato capo dell’FBI con presidenti Democratici e Repubblicani: nominato da George W. Bush nel 2001, appena una settimana dopo gli attentati dell’11 settembre, è considerato la persona che ha rimesso in piedi la credibilità dell’agenzia dopo gli attacchi; Barack Obama nel 2011 – cioè alla fine dell’incarico decennale di Mueller – gli chiese di restare altri due anni, per la prima volta nella storia dell’FBI. Il successore di Mueller a capo dell’FBI fu James Comey.

Mueller guida l’indagine da quando Donald Trump ha licenziato Comey, che ne era il precedente titolare: la nomina di Mueller a procuratore speciale era stata decisa dal Dipartimento della Giustizia dopo le pressioni del Congresso e della stampa e le accuse contro la Casa Bianca di voler insabbiare le indagini, confermate dalle dichiarazioni dello stesso Trump che aveva detto di aver licenziato Comey perché insoddisfatto di come stava gestendo l’inchiesta sulla Russia.

Robert Mueller. (Getty Images)

Su cosa sta indagando Robert Mueller
Su tre cose, innanzitutto, ma non solo su quelle.

La prima cosa è l’interferenza della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016, un’interferenza che si è manifestata con gli attacchi informatici contro Hillary Clinton e il Partito Democratico, e il furto di montagne di dati e email poi diffusi online da Wikileaks, ma anche con la produzione e diffusione – anche a pagamento – di tantissime notizie false online e con gli attacchi informatici contro i sistemi di voto statunitensi (che ci sono stati ma non sono andati a buon fine, per quel che ne sappiamo adesso).

La seconda cosa è la possibilità che qualcuno dentro il comitato elettorale di Donald Trump abbia collaborato o tentato di collaborare con la Russia: che conoscesse le intenzioni della Russia di danneggiare Hillary Clinton e invece di denunciarle alle autorità federali abbia come minimo provato ad approfittarne, se non che ne abbia effettivamente approfittato.

La terza cosa è la possibilità che Donald Trump abbia cercato di ostacolare le indagini: prima chiedendo a James Comey di chiudere un occhio su un suo ex collaboratore, poi licenziandolo da capo dell’FBI, poi ancora cercando di indirizzare e condizionare le indagini con pressioni pubbliche e private.

Occhio, però: come dicevamo, questi tre filoni sono un punto di partenza. Il mandato di Mueller gli permette di indagare e perseguire qualsiasi reato o potenziale tale si trovi davanti nel corso delle indagini, anche se non dovesse avere a che fare con le cose di cui sopra. Per esempio Mueller potrebbe finire per occuparsi anche degli affari delle aziende di famiglia di Trump, che hanno diverse storie considerate da anni come minimo molto sospette, se dovesse imbattersi in qualcosa di sospetto nel corso delle indagini.

Le due notizie di ieri, in breve
La prima: Paul Manafort e Rick Gates si sono consegnati alle autorità e sono stati incriminati per 12 capi d’accusa, tra cui cospirazione contro gli Stati Uniti, riciclaggio di denaro sporco e frode fiscale. Manafort è un consulente politico americano di lunghissimo corso, che era stato capo del comitato elettorale di Trump da marzo ad agosto del 2016; Gates è un suo collaboratore.

Manafort e Gates sono accusati in questo momento di cose che non riguardano direttamente la campagna elettorale: le incriminazioni si riferiscono al fatto che hanno lavorato per un partito filo-russo dell’Ucraina – quello dell’ex presidente Viktor Yanukovich – ma avrebbero nascosto al fisco americano i milioni di dollari ricevuti come compenso, cercando poi di riciclarli. Entrambi si sono dichiarati innocenti: sono stati rilasciati dopo il pagamento di una cauzione – 10 milioni di dollari per Manafort, 5 per Gates – e sono tenuti sotto stretta sorveglianza in attesa del processo, mentre hanno consegnato i loro passaporti.

Donald Trump, Paul Manafort e Ivanka Trump durante la convention del Partito Repubblicano del luglio 2016 a Cleveland. (Chip Somodevilla/Getty Images)

La seconda: sono stati depositati degli atti giudiziari – pubblici, consultabili qui – che raccontano dell’arresto di George Papadopoulos, che durante la campagna elettorale era stato un consulente di Trump per la politica estera. Papadopoulos era stato arrestato alla fine di luglio ma non se n’era mai saputo niente, a dimostrazione di quanto Mueller sia riuscito fin qui a non far trapelare nulla sulla stampa (cosa che suggerisce anche – alla stampa e agli altri indagati – che sappia già molte più cose di quelle che ha reso pubbliche). Papadopoulos è accusato di aver mentito all’FBI nascondendo i ripetuti contatti che ha avuto con i rappresentanti del governo russo allo scopo di acquisire materiale compromettente su Hillary Clinton, soprattutto email di cui il governo russo era in possesso.

Papadopoulos si è dichiarato colpevole e ha trovato un accordo con gli investigatori, ma le due cose non sono legate tra loro: ci si può dichiarare colpevoli senza offrire collaborazione, così come si può offrire collaborazione in cambio di uno sconto di pena e vedersela rifiutare dagli investigatori. L’accordo implica invece che Mueller pensi che Papadopoulos possa raccontare cose utili al proseguimento dell’indagine.

Cosa significano queste due notizie
Tutta la stampa americana e gli esperti di indagini grandi come questa considerano le notizie di ieri l’inizio della fase più delicata e intensa dell’indagine, non la fine: Mueller non ha intenzione di raccogliere tutto il materiale e poi incriminare tutti in una volta, bensì di procedere passo passo e rendere formali le incriminazioni man mano che pensa di aver trovato abbastanza prove. Un’informazione di contesto generale: nel sistema giudiziario statunitense si arriva alle incriminazioni solo quando un procuratore pensa di avere contro qualcuno un caso “a prova di bomba”: non si arriva a un’incriminazione – specie su una storia così delicata – sulla base di un semplice sospetto (anche se poi naturalmente sarà il processo a stabilire se un imputato è innocente o colpevole).

La simultaneità degli annunci su Manafort, Gates e Papadopoulos lascia pensare che Mueller voglia convincere i primi due – che se condannati senza un accordo rischiano anni di carcere – a collaborare con le indagini su Trump e la Russia; l’annuncio su Papadopoulos in particolare conferma che quello continua a essere l’obiettivo principale dell’indagine.

Cosa sappiamo in più dopo le notizie di ieri
Le accuse contro Manafort e Gates si riferiscono a un periodo che coincide anche con la campagna elettorale ma non hanno direttamente a che fare con la campagna elettorale. Le accuse contro Papadopoulos – e il suo essersi dichiarato colpevole – confermano che qualcuno nello staff di Trump era in contatto con i russi e sapeva delle email sottratte a Hillary Clinton molto prima che l’attacco informatico diventasse pubblico, e non lo denunciò alle autorità. Papadopoulos anzi invitò più volte i dirigenti del comitato Trump a incontrare i russi e Putin in persona (negli atti si parla specificamente di un alto dirigente del comitato Trump, senza che ne venga indicato il nome: ma gli investigatori lo conoscono visto che hanno acquisito le email). Non sappiamo se questi incontri ci siano stati.

Quello di Papadopoulos è il secondo caso del genere. Qualche mese fa era venuto fuori che il figlio maggiore di Trump – Donald Trump Jr. – aveva incontrato un’avvocata che rappresentava il governo russo per discutere del materiale compromettente su Clinton che i russi volevano fargli avere «nell’ambito del sostegno del governo russo per Donald Trump». Trump Jr. mise a conoscenza di questo incontro Paul Manafort e Jared Kushner, genero del presidente e oggi suo consigliere alla Casa Bianca, e non denunciò alle autorità l’accaduto; anzi si disse entusiasta della possibilità di ottenere quel materiale («I love it», scrisse in un’email).

Una parte delle conversazioni fra Trump Jr. e i rappresentanti del governo russo: il resto si può leggere qui.

Inoltre dopo le notizie di ieri sappiamo che Mueller e i suoi procuratori – quasi 20 persone, tutti investigatori molto esperti – stanno riuscendo a non far trapelare alla stampa niente che non vogliano far sapere loro stessi, e comunque pochissimo: questo – insieme alla notizia della collaborazione con Papadopoulos, iniziata tre mesi fa – vuol dire che con ogni probabilità hanno già molto più materiale di quello che hanno reso pubblico con gli atti diffusi ieri.

È vero che c’è anche un Democratico coinvolto?
Tony Podesta – il fratello di John Podesta, il più importante consigliere di Hillary Clinton durante la campagna elettorale – si è dimesso da capo della società di lobbying che dirige. Podesta non è accusato di niente, ma dagli atti diffusi ieri viene fuori che la sua società tra il 2012 e il 2014 lavorò con Manafort nell’ambito della sua consulenza per il governo dell’Ucraina. A oggi non si conosce nient’altro sulla posizione di Tony Podesta.

Cosa dice la Casa Bianca
Sia Donald Trump che la sua portavoce, Sarah Huckabee Sanders, hanno detto in sintesi che le notizie di ieri non riguardano la campagna elettorale, e che è Hillary Clinton ad aver collaborato con la Russia.

In realtà le notizie di ieri riguardano eccome la sua campagna elettorale: Manafort e Gates erano due dei suoi più importanti collaboratori e hanno mentito all’FBI sui loro rapporti con i filo-russi in Ucraina durante la campagna elettorale (come minimo), mentre Papadopoulos ha ammesso di aver cercato di ottenere dai russi materiale compromettente su Hillary Clinton durante la campagna elettorale.

La presunta collaborazione tra Hillary Clinton e la Russia, invece, fa riferimento alla vendita di una società canadese che si occupa dell’estrazione di uranio alla Russia, approvata nel 2010 dall’amministrazione Obama, di cui lei faceva parte come segretario di Stato: ma non ci sono prove che quella vendita sia in qualche modo sospetta o irregolare, e soprattutto che Clinton vi abbia avuto un qualsiasi ruolo.

Cosa succede adesso
Mueller proseguirà la sua ampia indagine e cercherà probabilmente di convincere Manafort e Gates a collaborare. Potrebbero arrivare altri arresti: la persona messa peggio nel giro di Trump sembrava da mesi essere proprio Manafort, ma un altro la cui posizione sembra compromessa è Michael Flynn, ex capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, che sappiamo aver mentito all’FBI sui suoi contatti e rapporti commerciali con governi stranieri. Per quanto con Trump non si possa mai escludere niente, al momento è considerato molto improbabile sia che Trump conceda la grazia alle persone coinvolte dall’indagine sia che licenzi Mueller: entrambe le cose sono tecnicamente possibili ma – come è accaduto col licenziamento di Comey – finirebbero per peggiorare la situazione di Trump e aggravare i sospetti che voglia ostacolare l’indagine, che sarebbe comunque raccolta da qualcun altro.

Qual è il miglior scenario possibile per Trump?
Le indagini di Mueller non vanno da nessuna parte, perché non ci sono reati o non se ne trovano le prove. Non ci sono altri arresti, Manafort e Gates vengono condannati solo per frode fiscale, si dimostra che Papadopoulos ha agito per conto suo e quindi che il comitato elettorale di Trump non ha collaborato con la Russia. Mueller porta avanti indisturbato la sua inchiesta fino alla fine e quindi si indebolisce anche l’accusa contro Trump di voler ostacolare la giustizia.

Qual è il peggior scenario possibile per Trump?
Le persone indagate e arrestate da Mueller, davanti al rischio di passare molti anni in carcere, collaborano con le indagini e coinvolgono gli altri dirigenti del comitato elettorale di Trump, fino ad arrivare allo stesso Trump.

Cosa rischia Trump?
Qui bisogna fare due discorsi diversi, uno giudiziario e uno politico. Anche qualora Trump finisse personalmente coinvolto dall’indagine, circostanza da cui siamo ancora lontanissimi, non è chiaro se il presidente possa essere incriminato nel corso del suo mandato: la legge statunitense è equivoca su questo punto, anche se sembra escluderlo, e prima di oggi non è mai stato necessario rispondere una volta per tutte a questa domanda. Se Mueller decidesse di incriminare il presidente, si arriverebbe con ogni probabilità a una sentenza della Corte Suprema.

Poi c’è il discorso politico. La procedura con cui il Congresso può rimuovere un presidente in carica – l’impeachment – non dipende direttamente dall’inchiesta: può essere intrapresa anche se il presidente non ha commesso nessun reato, come fu per Bill Clinton negli anni Novanta. È semplicemente una decisione politica intrapresa prima dalla Camera e poi dal Senato, che richiede tempi lunghi e soprattutto maggioranze molto ampie: mai nella storia americana, infatti, un presidente è stato rimosso con la procedura di impeachment. Oggi sia alla Camera che al Senato il Partito Repubblicano, quello del presidente Trump, controlla la maggioranza dei seggi.