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  • Domenica 25 settembre 2016

Com’è fatta una pallina da tennis

Da fuori ci sembra un buffo aggeggio peloso di un colore innaturale: in realtà ogni sua caratteristica ha uno scopo preciso

di Giulia Arturi

(Jamie McDonald/Getty Images)
(Jamie McDonald/Getty Images)

Le palline, come le racchette, sono gli strumenti del mestiere dei tennisti professionisti; ogni minimo cambiamento di uno dei due attrezzi influisce sulla prestazione. Anche gli spettatori delle partite importanti sanno che prima di ogni servizio il giocatore sceglie oculatamente che palla usare, per poi ributtare al raccattapalle quelle scartate. Più le palle sono nuove, più hanno conservato la pressione e quindi viaggiano veloci; e qualche chilometro orario di differenza può trasformare una buona prima palla di servizio in un ace, un punto senza che l’avversario riesca nemmeno a rispondere.

Le più antiche palline da tennis venivano costruire coi materiali più disparati: pelle, gesso, muschio, sabbia, lana, capelli umani e peli animali. Grazie all’invenzione del processo di vulcanizzazione della gomma, brevettato da Charles Goodyear nel 1844, il tennis moderno, che nacque negli anni ’70 dello stesso secolo, adottò le palle di gomma. Che oggi possono essere usate in tornei ufficiali solo se rispondono a specifici standard determinati dalla ITF, la Federazione Internazionale di Tennis. Secondo questi parametri, le palline considerate “standard” possono avere un diametro che va da 6,54 a 6,86 centimetri e un peso compreso tra 56 e 59,4 grammi. Oltre alle palline standard, dette di tipo 2, ne esistono altri tre tipi, dai parametri leggermente diversi: quelle più dure e veloci di tipo 1, adatte a campi più lenti, e quelle di tipo 3, meno veloci, indicate per le superfici rapide; entrambe le categorie sono state inserite nel regolamento nel 2002. L’ultimo tipo è pensato per giocare ad un’altitudine superiore ai 1.219 metri (4000 piedi), ed è stato introdotto nel 1989.

Le palline vengono testate anche secondo il rimbalzo e la deformazione. Qualunque palla lasciata cadere da 100 pollici (254 cm) su una superficie piatta a rigida come il cemento deve avere un rimbalzo minimo di 135 cm e uno massimo di 147; le palle di tipo 2 e di tipo 3, ad esempio, devono avere una deformazione all’arrivo a terra compresa tra 0,56 cm e 0,74 cm, e una deformazione al rinvio compresa tra 0,8 cm e 1,08 cm.

In origine le palline erano bianche o nere, a seconda della superficie su cui si giocava. Il colore giallo fu introdotto nel 1972 dopo che una ricerca dimostrò che in televisione gli spettatori le vedevano meglio. Solo Wimbledon mantenne il colore bianco ancora fino al 1986.

Ad ogni partita ufficiale si aprono confezioni di palline nuove dopo i primi sette game e poi dopo ogni nove game giocati. Ne consegue che ogni anno a Wimbledon si utilizzano circa 54.200 palline e al Roland Garros circa 65.000. Per gli US Open ne servono 95.000 e dal 1978 sono fornite dall’americana Wilson, una delle più prestigiose marche al mondo. La produzione annuale della Wilson è stimata attorno alle 100 milioni di palline, la maggior parte delle quali fabbricate in Thailandia, in uno stabilimento fuori Bangkok. Il New York Times ha raccontato in un articolo come vengono realizzate. Prima che il processo inizi la gomma naturale, proveniente da Thailandia, Vietnam e Malesia, ha la forma di spessi tappeti, impilati uno sopra l’altro. Con vari macchinari la gomma viene poi schiacciata, modellata e impastata fino a ridursi in pezzettoni della grandezza di un biscotto. Questi pezzettoni, passando attraverso una pressa idraulica, vengono trasformati in semisfere cave, che si procede poi a tagliare, incollare e pressare per ottenere dei gusci sferici pressurizzati: sono i nuclei della palline. In origine i nuclei erano fabbricati stampando la gomma grezza in strati con una forma che si avvicinava a quella del trifoglio, assemblandoli successivamente con un apposito macchinario per ottenere la forma sferica. Il metodo attuale di unire le due metà della pallina finale garantisce molta più uniformità al prodotto.

I nuclei “pressurizzati” vengono poi rimescolati in grandi vasche così che acquisiscano consistenza. Passano poi rapidamente in miscelatori per essere rivestiti di colla e raccolti dentro a delle griglie prima dell'”infeltrimento”. Sono diversi i benefici della copertura in feltro (in origine era flanella) che si distingue per la caratteristica peluria: la peluria crea attrito e quindi più resistenza all’aria, diminuendone la velocità e riducendo ampiezza ed altezza del rimbalzo: una pallina del tutto liscia renderebbe i rimbalzi troppo veloci e quindi ingiocabili.

Dopo un ultimo passaggio nella pressa idraulica per fissare bene i materiali alla colla è il momento di applicare i loghi, e di assicurarsi della qualità del prodotto. Il contenitore viene riempito manualmente, sigillato e lasciato riposare per cinque giorni per essere certi della chiusura ermetica che consente anche al tipico odore delle palline (di gomma e di feltro) di rimanere fresco fino a che la confezione non sarà aperta.

In tutti i tornei professionistici si usano palline pressurizzate, cioè con nucleo riempito con aria in pressione o azoto; per conservarle al meglio, anche i contenitori sono pressurizzati e chiusi ermeticamente. Rispetto alle altre palline, rimbalzano di più e sono più veloci, ma hanno una vita molto più breve: appena il contenitore viene aperto iniziano infatti a perdere lentamente pressione e quindi anche la capacità di rimbalzo.

Da qualche tempo la produzione mondiale delle palline si è quasi integralmente spostata in Asia. La ITF pubblica un elenco dei marchi e delle 284 tipologie di palline approvate: di queste 126 sono prodotte in Thailandia, 58 in Cina, 44 nelle Filippine, 32 a Taipei, 11 in Indonesia, 3 in Italia, 1 in India e 1 in Argentina.