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  • Giovedì 19 novembre 2015

L’Islam c’entra?

Uno studioso di politica estera – americano e musulmano – sostiene di sì, spiegando che bisognerebbe discuterne seriamente, tenendo da parte premesse benintenzionate

di Shadi Hamid – Washington Post

(AP Photo/Hadi Mizban)
(AP Photo/Hadi Mizban)

Shadi Hamid lavora come ricercatore per il Project on U.S. Relations with the Islamic World nel dipartimento sul Medio Oriente per il centro studi americano Brookings Institution. Scrive spesso sull’Atlantic. Il suo ultimo libro si intitola Temptations of Power ed è stato pubblicato dalla Oxford University Press in ottobre.

Ogni volta che l’ISIS compie un attentato o un’altra atrocità, i musulmani – soprattutto quelli che vivono in Occidente – hanno un sussulto. Attacchi come quelli di Parigi significano un altro giro di persone che chiedono ai musulmani di dissociarsi, come se avessero uno stigma o per loro valesse la presunzione di colpevolezza.

La tentazione di separare le fede musulmana dai crimini dell’ISIS è comprensibile, e genera spesso affermazioni come “l’ISIS non c’entra niente con l’Islam” o “l’ISIS sta solamente usando l’Islam per i propri scopi”. È una reazione benintenzionata. Viviamo in un’epoca di fanatismo anti-islamico, dove politici importanti si sentono liberi di dire cose che una volta sarebbero state inimmaginabili. Insomma: proteggere l’Islam – e per estensione i musulmani – da ogni associazione col terrorismo è una causa giusta.

Ma dire una cosa che va nella giusta direzione non la rende giusta di per sé. La stragrande maggioranza dei musulmani condanna l’ISIS e la sua ideologia. Ma ciò non vuol dire che l’ISIS non abbia nulla a che fare con l’Islam, quando è evidentemente chiaro invece che qualcosa a che fare ce l’ha.

Se osserviamo le pratiche di governo dell’ISIS, è davvero difficile – se non impossibile – concludere che stiano inventandosi ogni cosa per poi coprirla con una patina “islamica”. Sarebbe facile osservare il ruolo molto importante che dentro l’ISIS hanno assunto membri del partito secolare pan-arabo Baath, il partito di governo dell’Iraq ai tempi di Saddam. Eppure molti baathisti hanno ottenuto il potere durante l’ultimo periodo di Saddam, quello della “islamizzazione”. E in ogni caso, anche se una certa persona inizia la propria carriera da baathista non significa che poi non diventi legato alla religione.

Un ruolo per gli apologeti dell’Islam esiste, se il loro obiettivo è difendere una fede e non analizzarla. Io stesso sono musulmano, ed è impossibile per me credere che un Dio giusto possa approvare comportamenti come quelli dei miliziani dell’ISIS. Ma se l’obiettivo è comprendere l’ISIS, allora io – così come altri analisti musulmani – dovremmo mettere da parte le nostre convinzioni. Come in ogni religione, c’è infatti un divario fra ciò che l’Islam dovrebbe essere e come invece è inteso dai musulmani, compresi quelli estremisti.

Per gli studiosi dei movimenti islamisti e del ruolo dell’Islam in politica, che siano musulmani o non musulmani, l’obiettivo dovrebbe essere capire e spiegare, piuttosto che dare giudizi su cosa sia “veramente” islamico o meno.

Questo implica comunque una certa neutralità. Oltre a essere musulmano io sono anche americano, e quindi di vedute liberali. In passato ho scritto di come – sebbene riteniamo il liberalismo la migliore “ideologia” per strutturare una società – non per questo dobbiamo cadere nell’errore di usarlo per comprendere “ideologie” altrettanto popolari nel mondo arabo come quella dei Fratelli musulmani. Non ha senso paragonare l’islamismo alle idee liberali, dato che provengono da contesti molto diversi.

Il dibattito “l’ISIS ha a che fare con l’Islam?” può sembrare infinito e poco fruttuoso. Eppure è necessario. Gli apologeti dell’Islam ci hanno portati a credere che la religione non abbia un ruolo nella politica. Negli anni scorsi diverse agitazioni in Medio Oriente hanno chiarito che invece per gli islamisti di varia scala la religione un ruolo ce l’ha eccome.

Spesso la religione funziona allo scopo: ispira alcuni adepti ad agire, a morire – o a uccidere, nel caso dell’ISIS – per una causa, o ancora influisce su decisioni strategiche di battaglia. Negare tutto questo non serve a combattere l’islamofobia, dato che per chi non è molto pratico di queste questioni l’affermazione che ISIS e Islam non abbiano alcun legame suona assurda e fuori dalla realtà.

Invece dovremmo aprire un dibattito – neutrale e informato – su quale ruolo abbiano le motivazioni politiche e religiose nella costruzione di un fenomeno come quello dell’ISIS o di altri movimenti influenzati in senso religioso. È difficile fare una discussione di questo tipo se la premessa iniziale è lasciare fuori dalla discussione la religione.

Questo approccio ha i suoi rischi: evidenziare il potere della religione e dell’Islam in particolare potrebbe foraggiare le istanze dei fanatici, che potrebbero distorcere il dibattito a loro favore. Alla fine, però, il mio lavoro non può essere far sembrare “benevolo” l’Islam, o dimostrare che stiamo parlando di “una religione di pace”: la realtà è molto più complicata. Dobbiamo avere fiducia nelle nostre conclusioni, anche se ci mettono a disagio – anzi: specialmente in quelle occasioni.

© Washington Post 2015