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  • Domenica 9 agosto 2015

Un anno dopo Ferguson, cosa è cambiato

Il 9 agosto 2014 in Missouri un ragazzo nero fu ucciso da un poliziotto bianco: da allora si è discusso molto della questione razziale ma i cambiamenti sono stati pochi

Il 9 agosto del 2014 Darren Wilson, un agente di polizia della città di Ferguson, nello stato americano del Missouri, uccise Michael Brown, un ragazzo nero disarmato che aveva appena compiuto una piccola rapina. L’episodio diede origine a una lunga serie di proteste, discussioni e riflessioni sul tema più ampio della ancora esistente discriminazione dei neri all’interno della società americana, e più in particolare dell’atteggiamento violento e discriminatorio della polizia locale di Ferguson. All’uccisione di Brown seguirono grandi proteste in tutto il paese, ma l’iniziale ricostruzione dell’omicidio – quella che sosteneva che Brown avesse le mani alzate in segno di resa nel momento in cui il poliziotto gli sparò contro – venne smentita da un’indagine del dipartimento della Giustizia. Nella nuova ricostruzione si diceva che Brown aveva cercato di strappare la pistola dalle mani di Wilson, aveva lottato con lui e nella colluttazione un colpo era partito per errore.

Nonostante le indagini sulla morte di Brown abbiano ribaltato la narrativa dell’episodio, i fatti di Ferguson sono stati comunque un momento di importanza storica per gli Stati Uniti. Insieme al rapporto sulla morte di Brown, il dipartimento della Giustizia pubblicò anche un’altra indagine che mostrava come il dipartimento di polizia di Ferguson avesse per anni portato avanti una politica di discriminazione istituzionalizzata dalla minoranza nera. I neri, soprattutto se giovani e maschi, avevano una percentuale incredibilmente alta di possibilità di essere fermati, multati, arrestati o molestati in altro modo dalla polizia. Nel documento del dipartimento di Giustizia si leggeva che alla guida dell’85 per cento delle macchine fermate a Ferguson c’era un nero; che il 90 per cento delle persone accusate e il 93 per cento delle persone arrestate per piccole infrazioni alla guida erano neri. Jamelle Bouie, giornalista di Slate, ha scritto che i fatti di Ferguson hanno fatto aprire gli occhi del popolo americano su un problema che era stato dimenticato ma che divide ancora profondamente la società americana. Negli ultimi vent’anni mai come dopo Ferguson gli americani sono stati consapevoli di questa divisone, ha scritto Bouie.

Da allora, nonostante le proteste e le prolungate discussioni in tutti gli Stati Uniti, le cose non sono cambiate molto. Il 9 agosto, in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Michael Brown, il Washington Post ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta su episodi simili di violenze avvenuti recentemente negli Stati Uniti. Nei primi otto mesi del 2015, 24 neri disarmati sono stati uccisi dalla polizia. È un numero apparentemente basso, contando che nello stesso periodo di tempo la polizia ha ucciso in tutto 585 persone. Il problema razziale emerge però chiaramente quando si guarda a un altro numero. Tra tutte le persone uccise soltanto 60 erano disarmate: il 40 per cento di questi 60 erano maschi neri. Un numero altissimo se si considera che i maschi neri sono solo il 6 per cento di tutti gli abitanti degli Stati Uniti.

Le radici di queste discriminazione sono profonde e radicate nella stessa topografia di Ferguson così come di molte altre città americane. La distribuzione della popolazione in città è completamente sballata, con i neri concentrati in pochi quartieri poveri e degradati. L’area metropolitana in cui si trova Ferguson, quella di St Louis, è considerata la nona area dove vige la maggior segregazione di tutti gli Stati Uniti. Secondo uno studio, per ottenere una distribuzione equa della popolazione, circa il 70 per cento degli abitanti neri della città dovrebbe cambiare quartiere. Il New York Times ha provato a capire l’origine di questa segregazione e cercato di scoprire se in un anno qualcosa è cambiato.

L’origine della geografia razziale di St Louis risale al 1916, quando il sindaco emise un’ordinanza che proibiva le comunità miste. La legge è decaduta da tempo, ma nel corso dei decenni associazioni di proprietari e gruppi di quartiere si sono impegnati per impedire di vendere o affittare abitazioni ai neri nei quartieri migliori della città. Questa discriminazione esiste ancora oggi ed è mantenuta in piedi con sistemi del tutto legali. Molti proprietari di casa bianchi, ad esempio, si rifiutano di accettare in pagamento i “voucher 8”, una contributo pubblico al pagamento dell’affitto di cui godono soprattutto i neri, la parte più povera degli abitanti di St Louis e Ferguson.

Secondo il New York Times le maggiori resistenze sono ancora di natura culturale. Le comunità con le scuole e le abitazioni migliori della città non vogliono neri, poveri e altre minoranze nei loro quartieri e adottano ogni tattica possible per evitare che queste persone divengano loro vicini di casa. E così il degrado non fa altro che autoperpetuarsi. Vivere nei quartieri-ghetto significa non avere accesso a una buona istruzione, non avere possibilità di ottenere un buon lavoro e quindi di migliorare la propria condizione economica. È una situazione che costringe a loro volta i figli dei neri a continuare a vivere negli stessi quartieri lasciando povertà e degrado in eredità generazione dopo generazione.

L’amministrazione Obama ha approvato una serie di leggi negli ultimi mesi per cercare di cambiare la situazione. Oggi per i proprietari di abitazione è più difficile rifiutarsi di vendere o affittare case per motivi razziali. Gli enti federali incaricati di fornire sussidi ai più poveri sono stati potenziati. Difficilmente queste misure sarebbero state prese senza i fatti di Ferguson. Anche se in un anno ancora poco sembra essere cambiato, in molti sono ottimisti: almeno la questione razziale è tornata ad essere al centro del dibattito pubblico. Come ha scritto Bouie su Slate: «Se Ferguson è stato un terremoto – un cambio epocale del discorso su razza e razzismo – allora un anno dopo non stiamo semplicemente sentendo le scosse di assestamento. Ci stiamo preparando al prossimo terremoto».