La storia di Cassandra C., che ha 17 anni e non vuole curare il suo tumore

Una minorenne americana non vuole fare la chemioterapia, sua madre è d'accordo con lei: il tribunale dei minori però l'ha costretta

Cassandra C. ha 17 anni e vive a Windsor Locks, un comune di circa 12 mila abitanti nella contea di Hartford, in Connecticut, negli Stati Uniti; ha il linfoma di Hodgkin, un tumore che colpisce il sistema immunitario e che, se diagnosticato e trattato precocemente, ha un elevato tasso di sopravvivenza. Oggi Cassandra si trova sotto la tutela del “Department of Children and Families” (DCF), l’agenzia del governo americano responsabile dei servizi sociali e dell’assistenza ai minori. La scorsa settimana la Corte Suprema del Connecticut ha stabilito che la ragazza non è in grado di decidere per sé e quindi che non è libera di rifiutare le cure per la sua malattia, come invece vorrebbe. È una storia diversa da quelle che siamo abituati a sentire riguardo la libertà di scegliere come morire: in primo luogo perché la malattia di Cassandra è curabile, in secondo luogo perché Cassandra è minorenne. Cassandra ha raccontato su un giornale locale la sua storia in una lettera.

«Negli ultimi 17 anni ho vissuto una buona vita. Siamo sempre state solo io e mia madre e tutti i nostri animali domestici. Mia madre mi ha cresciuta bene, insegnandomi a essere una donna forte, capace e indipendente. Mi ha insegnato a distinguere il bene dal male e mi ha sempre guidata verso la giusta direzione, restando al mio fianco in ogni mia scelta. Non avrei la mia forza, la mia determinazione e la mia carica, se non fosse per mia madre. Ha svolto il ruolo di una mamma e di un papà, e ha fatto davvero un buon lavoro!

Le parole non possono descrivere quello che la mia vita è diventata nel corso degli ultimi mesi. “Raccapricciante” mi sembra un eufemismo. Quello che ho subito è traumatizzante. Non mi è mai passato per la testa che un giorno mi sarebbe stato diagnosticato un cancro. A settembre dopo un’estate molto difficile di analisi del sangue, esami e biopsie, mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin».

Cassandra racconta che a quel punto sia lei che la madre volevano assicurarsi che la diagnosi fosse corretta chiedendo un secondo parere a un altro medico – «volevamo essere sicure al cento per cento che avevo il cancro» – ma il tempo necessario per ottenere un secondo parere era stato giudicato dai medici «una perdita di tempo». Cassandra intanto aveva deciso di rinunciare alle cure. Associated Press racconta che la madre aveva appoggiato da subito la sua decisione e le aveva permesso di non presentarsi a diversi appuntamenti già fissati per le sedute di chemioterapia. La madre era stata così segnalata agli assistenti sociali per negligenza medica, scrive Cassandra, perché «non aveva rispettato» i tempi raccomandati e stabiliti dal medico.

«In nessun modo mia mamma è negligente. Lei mi ha sempre messa davanti a sé. Mi sento offesa da chi ha creduto il contrario. Mia mamma è stata definita “ostile”, “negligente” e “disinteressata”, tre parole false che mi spezzano il cuore».

Dopo la segnalazione al DCF, gli assistenti avevano fatto richiesta di prendere temporaneamente sotto tutela la ragazza. Diversi medici avevano sostenuto che Cassandra aveva una buona possibilità di sopravvivere se si fosse sottoposta alle cure, tra l’80 e l’85 per cento; se invece non si fosse curata sarebbe quasi certamente morta nel giro di due anni. A ottobre, mentre Cassandra si trovava a casa da sola, arrivarono dunque gli assistenti sociali e i poliziotti di Windsor Locks: «Mi sono nascosta nel mio armadio a piangere al telefono con la mamma e i miei amici fino a quando mamma è tornata a casa. Sono rimasta seduta nel mio armadio per almeno un’ora, mentre la mamma, gli assistenti sociali e la polizia discutevano al piano di sotto. Avevo paura». Quel giorno Cassandra aveva dovuto seguire gli assistenti sociali ed essere portata in una casa famiglia:

«Ero devastata. Avevo bisogno di stare con mia mamma. Portarmi via da mia madre non era in nessun modo nel mio interesse. Ci sono bambini che hanno bisogno dei servizi sociali ma io non sono una di loro».

A novembre le era stato permesso di tornare a casa, con la promessa di avviare immediatamente la chemioterapia. «Anche se non avevo alcuna intenzione di procedere con la chemioterapia, una volta tornata a casa l’ho subita per due giorni. Due giorni sono stati sufficienti per farmi capire che mentalmente ed emotivamente non potevo reggere la chemioterapia. Mi sentivo schiacciata contro un muro. Non avevo il diritto di scegliere quello che volevo». Cassandra aveva deciso allora di «prendere in mano la situazione» e scappare:

«Ero disposta a lasciare tutto quello che amavo – la mia mamma, i miei amici, il mio lavoro (Cassandra lavorava come commessa in un negozio contribuendo alle spese familiari, ndr), il mio gatto, Simba, e cosa ancora più importante, la mia vita, che mi piaceva molto – per allontanarmi dalla costrizione di qualcosa che non volevo».

Cassandra racconta di aver raccolto le sue cose e di essersi allontanata mentre la madre dormiva, con l’aiuto di alcune persone che sono state con lei «amorevoli e comprensive». Quando aveva cominciato a vedere che la sua scomparsa era diventata una notizia, che la stavano cercando, che alcuni pensavano che lei fosse morta e che sua madre stava per essere arrestata perché pensavano che sapesse dove si trovava la figlia o che sapesse chi la stava nascondendo, aveva deciso di tornare a casa. Sulla presunta complicità della madre, scrive Cassandra:

«Non l’ha fatto – non le ho mai detto che me ne stavo andando – e non avrei potuto, perché sapevo che avrebbe cercato di fermarmi. Dopo circa una settimana sono tornata a casa, perché non volevo che la gente pensasse che ero morta, e non mi sarei mai perdonata se mia madre fosse andata in prigione per qualcosa che avevo fatto io».

Una volta tornata, Cassandra era stata portata dagli assistenti sociali in ospedale per un controllo medico. Stava bene e la rimandarono a casa: «Ho pensato che fosse finita. Mi sbagliavo». Il caso era stato portato dal dipartimento dei minori in tribunale: considerando le alte probabilità di morte in assenza di cure, il dipartimento aveva sostenuto che lo Stato avesse la responsabilità di prendere il controllo. Veniamo alla storia di poche settimane fa: a dicembre Cassandra è stata ricoverata. «Non sapevo cosa mi sarebbe successo, ma sapevo che non avevo intenzione di cedere senza combattere». La sua stanza è stata posta sotto sorveglianza, poteva uscire e camminare lungo il corridoio solo sotto controllo: «Mi sentivo in trappola». Dopo una settimana i medici hanno deciso di costringerla a sottoporsi alla chemioterapia.

«Mi hanno legata ad un letto per i polsi e per le caviglie e mi hanno sedata. Mi sono svegliata in sala di rianimazione con un catetere inserito chirurgicamente sul torace. Ero indignata e mi sentivo completamente violata. Il mio telefono era stato portato via, quello dell’ospedale era stato rimosso dalla mia camera e mi avevano portato via anche le forbici che usavo per ritagliare»

Cassandra si trova in ospedale da un mese e si lamenta di «non poter lavorare» e non poter «pagare le bollette».

«Non ho potuto festeggiare il Natale e Capodanno con i miei amici e la mia famiglia. Mi manca il mio gatto e mi manca l’aria fresca. Avere delle persone in visita è complicato, quelle di mia madre sono limitate, e non sono stata in grado di vedere tutte le persone che avrei voluto. I miei amici sono un sostegno importante, ho bisogno di loro. Finalmente mi è stato concesso un iPad. Posso scrivere dei messaggi ai miei amici su Facebook, ma non è neanche lontanamente come poter chiamare un amico di notte quando non riesco a dormire o sentire la voce di qualcuno per tirarmi su».

Cassandra conclude la sua lettera dicendo che vive in un «incubo continuo»:

«Pretendo il diritto di prendere le decisioni che riguardano la mia salute: è disgustoso che io stia combattendo per un diritto che io e qualsiasi altro nella mia situazione dovremmo già avere. Questa è la mia vita e questo è il mio corpo, non del Department of Children and Families e non dello Stato. Sono un essere umano: dovrei essere in grado di decidere se volere o non volere la chemioterapia. Che io viva 17 anni o 100, dovrebbe essere una scelta mia e di nessun altro. Siamo tenuti a vivere entro un certo termine per legge? Chi lo stabilisce? Mi interessa la qualità della mia vita, non solo la quantità».

Nel frattempo, la madre di Cassandra si è rivolta alla Corte Suprema del Connecticut per violazione dei diritti umani appellandosi al principio del «minore maturo» in base al quale il tribunale era chiamato a stabilire innanzitutto se Cassandra fosse sufficientemente matura per essere legalmente autorizzata a prendere delle decisioni mediche. La madre in questi mesi ha sostenuto che «Cassandra non vuole dei veleni nel suo corpo» e questo nella convinzione che la cura possa fare più danni della stessa malattia. Non risultano convinzioni particolari di tipo religioso o legate a qualche forma di medicina alternativa della famiglia ma nemmeno argomentazioni maggiori rispetto al rifiuto a fronte, soprattutto, delle alte percentuali di sopravvivenza per Cassandra grazie alle cure. La madre ha comunque dichiarato che avrebbe cercato dei trattamenti alternativi che non includessero il fatto di dover iniettare del “veleno” nel corpo della figlia. La Corte ha comunque dato ragione all’unanimità al dipartimento governativo, dicendo che la prima fuga della ragazza ha influito nella loro decisione: in base alla sentenza Cassandra non è stata considerata legalmente competente e sufficientemente matura per prendere le decisioni mediche che la riguardano. Dovrà dunque continuare a sottoporsi alla chemioterapia. Attualmente è ricoverata all’ospedale di Hartford.

Negli Stati Uniti, scrive l’Atlantic, per gli adulti è previsto il diritto all’integrità fisica: questo significa che un adulto può rifiutare le cure mediche salvavita. Ma quando si tratta di minori, la questione si fa più controversa. Solo alcuni stati accolgono infatti la “dottrina del minore maturo”, che permette a ragazzi di 16 e 17 anni di discutere in tribunale della loro maturità per quanto riguarda decisioni mediche che li riguardano: tra questi Illinois, Maine, Tennessee, West Virginia, Michigan e Massachusetts. Finora non c’erano stati casi simili in Connecticut. Normalmente il principio viene utilizzato quando i minori vogliono ricevere un trattamento medico che i loro genitori si rifiutano loro di concedere: i casi più frequenti riguardano gli aborti. Nel 1989, nell’Illinois, si verificò un caso in cui sia la minore che i genitori erano d’accordo: una ragazza di 17 anni Testimone di Geova affetta da leucemia venne autorizzata a rifiutare delle trasfusioni di sangue (ma sopravvisse, anche perché aveva ricevuto una serie di trasfusioni prima della decisione finale della Corte).