• Cultura
  • Mercoledì 17 settembre 2014

Un ponte di troppo

Esattamente 70 anni fa gli alleati cercarono di far finire la Seconda guerra mondiale con un'operazione spettacolare e spericolata: finì malissimo

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

La mattina del 17 settembre 1944 gli abitanti dell’Inghilterra meridionale assistettero a uno spettacolo insolito. Era una giornata serena e nel cielo azzurro videro sfilare un’immensa colonna formata da più di 3.500 aeroplani: tremilaecinquecento. Era larga sedici chilometri e lunga più di 160, così grande che impiegò più di due ore a passare sopra le loro teste e a scomparire verso sud. Era una scena che mai nessuno prima di loro aveva visto e che nessuno avrebbe mai più rivisto in futuro. A bordo di quegli aerei c’erano più di 20 mila ragazzi americani e inglesi, soldati che avevano in media meno di 24 anni, impegnati in “Market Garden”, il più grande sbarco aviotrasportato mai compiuto nella storia. La loro missione era assestare il colpo definitivo alla Germania nazista e mettere fine alla Seconda guerra mondiale prima del natale 1944. Per una serie di errori, di sfortuna e incompetenza, quei soldati che intorno all’ora di pranzo si lanciarono con il paracadute non sapevano che nei boschi intorno agli obiettivi che avrebbero dovuto conquistare erano nascoste due divisioni panzer delle SS, e che quella che stava per cominciare sarebbe stata una delle più difficili e tragiche battaglie di tutta la guerra.

Il 17 settembre del 1944 il tenente Heinz Volz dell’esercito tedesco si trovava di guardia a un ponte nell’Olanda meridionale e scrisse nel suo diario: «Il 17 settembre è cominciato come ogni altra giornata, una splendida domenica di autunno, soleggiata e tiepida». Volz e i suoi compagni avevano bisogno di una giornata come quella per riposarsi. Da circa un mese l’intero esercito tedesco si stava ritirando senza sosta, «più veloce di quanto gli alleati riuscissero a inseguirlo», come ha scritto lo storico Cornelius Ryan nel suo libro “Quell’ultimo ponte“. Volz e altre decine di migliaia di soldati tedeschi erano i resti dell’esercito che per quasi due mesi aveva difeso le spiagge e i campi della Normandia dopo lo sbarco alleato del 6 giugno (che avevamo raccontato qui).

In quei giorni sembrava che la guerra in Europa fosse sul punto di finire. L’esercito tedesco si stava ritirando verso la Germania con ogni mezzo disponibile (alcuni civili olandesi videro dei soldati tedeschi fuggire a bordo di un carro funebre trainato da due cavalli). Sembrava che il principale problema degli alleati non fossero i tedeschi, ma la geografia. Nel sud della Francia l’avanzata era ostacolata dalla catena montuosa dei Vosgi. Più a nord si stendeva la foresta delle Ardenne, attraversata da poche strade malridotte. A nord, in Olanda, il terreno era pianeggiante e adatto a un’offensiva, ma era attraversato da una miriade di canali e fiumi, l’ultimo dei quali, il Reno, era una formidabile barriera d’acqua larga in media 400 metri. Non bisognava fare altro che scegliere uno di questi tre teatri e concentrare le forze per ottenere un risultato definitivo. Il settore scelto fu l’Olanda e il mezzo la più grande operazione aviotrasportata della storia.

L’assalto
Intorno all’ora di pranzo del 17 settembre un tenente tedesco che si trovava ad Arnhem si fermò a osservare uno strano fenomeno in cielo: improvvisamente sullo sfondo azzurro erano comparsi migliaia e migliaia di puntini bianchi. Pensò si trattasse di neve prima di correggersi ad alta voce: «Non nevica mai a settembre». Altri due ufficiali si chiesero se quelle che vedevano non fossero nuvole. Poi uno dei due capì improvvisamente: «Cristo santo, quelli sono paracadute!». L’operazione aveva colto i tedeschi completamente impreparati. L’idea degli alleati era semplice: invece che lottare per ogni singolo ponte, conquistarli tutti con un unico colpo di mano. Questa era la prima parte dell’operazione (Market) che sarebbe stata compiuta da circa 35 mila paracadutisti americani, inglesi e polacchi. La seconda parte dell’operazione (Garden) era costituita da una grossa forza di terra che avrebbe dovuto percorrere tutti i cento chilometri del corridoio appena occupato e stabilire una testa di ponte oltre il Reno, nella città di Arnhem (qui potete vedere una mappa che rende bene l’idea). Una volta arrivati oltre al Reno in territorio tedesco, la fine della guerra sarebbe stata questione di settimane.

Il successo di Market Garden dipendeva dal fatto che tutti i ponti venissero conquistati intatti prima che i tedeschi avessero il tempo di distruggerli. Inoltre, i ponti avrebbero dovuto essere difesi fino all’arrivo delle forze Garden: questa era la parte difficile. I paracadutisti erano armati soltanto alla leggera: non avevano carri armati né artiglieria pesante. I soccorsi, quindi, dovevano arrivare in fretta, prima che i tedeschi potessero riorganizzarsi e riprendersi i ponti utilizzando armamenti pesanti. Bastava che un unico ponte lungo il corridoio venisse distrutto per condannare le truppe atterrate pochi chilometri più avanti. Quando agli ufficiali di terra vennero presentati i piani dell’operazione, commentarono con un po’ di scetticismo: «Sono davvero un bel mucchio di ponti». L’operazione era molto rischiosa ma c’erano anche degli aspetti incoraggianti: l’esercito tedesco era in ritirata da settimane, aveva perduto gran parte dei suoi equipaggiamenti ed era demoralizzato. I comandanti sintetizzarono l’operazione spiegando che i paracadutisti «avrebbero steso un tappeto su cui le truppe di terra avrebbero fatto una passeggiata». Alcuni ufficiali delle divisioni aviotrasportate si chiesero se quel tappeto dovesse essere composto di soldati vivi o morti.

Le previsioni ottimistiche si rivelarono corrette, almeno in parte. I primi soldati a scendere a terra la mattina del 17 settembre furono gli americani dell’82esima e 101esima divisione aviotrasportata. Si trattava delle truppe migliori dell’esercito americano: ragazzi tra i 19 e i 25 anni, ben addestrati e con esperienza di combattimento in Normandia o in Italia. Il loro attacco fu una sorpresa quasi perfetta, i tedeschi furono colti dal panico e tutti i ponti principali furono conquistati intatti. In diversi settori, però, i tedeschi dimostrarono di essere un esercito ancora molto lontano dall’essere sconfitto. Singoli ufficiali raccolsero battaglioni improvvisati formati da truppe di seconda linea (addetti alla logistica, autisti, infermieri, personale dell’antiaerea), li armarono di bombe e pistole mitragliatrici e li lanciarono in una serie di violenti e disperati contrattacchi contro i paracadutisti. Quasi tutti i contrattacchi furono respinti, ma quegli scontri disperati furono un preludio di quello che sarebbe cominciato di lì a pochi giorni. Più a nord, intanto, nel settore di Arnhem, dove erano atterrati gli inglesi della Prima divisione aviotrasportata, le cose stavano andando molto diversamente.

Arnhem
Nel settore cruciale dell’operazione Market la scena la mattina del 17 settembre era surreale. Gli inglesi atterrarono in una serie di tranquilli campi poco lontano dai due ponti sul Reno, quello ferroviario poco fuori città e quello stradale, in mezzo al centro abitato. Mentre gli inglesi si radunavano nella placida campagna olandese come se fossero a una scampagnata (un ufficiale chiamò a raccolta i suoi uomini con un corno da caccia) videro muoversi nei boschi alcune strane figure avvolte in camici bianchi. Erano i pazienti di un vicino ospedale psichiatrico, colpito poche ore prima dai bombardamenti che avevano preceduto l’operazione. Qualcuno prese quella scena come un segno di malaugurio. Dopo essersi rapidamente riorganizzati, gli inglesi si divisero in tre colonne e cominciarono a marciare verso la città per conquistare il ponte che immaginavano difeso da pochi soldati di retroguardia. Dopo pochi chilometri di strada, nei pressi dei sobborghi della città, le unità dell’avanguardia si trovarono davanti qualcosa che non si aspettavano. A un incrocio videro l’enorme sagoma squadrata di un carro armato tedesco: un Tiger da sessanta tonnellate. Prima che potessero capire cosa stava succedendo si trovarono sotto il fuoco nemico. In pochi minuti, tutte le direttrici d’assalto furono attaccate da veicoli corazzati e carri armati che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Invece che dei soldati demoralizzati e male armati, gli inglesi fronteggiavano i soldati d’élite delle SS. Qualcosa nel piano era andato incredibilmente storto.

L’intelligence alleata aveva commesso un gravissimo errore. Nelle settimane prima dell’operazione, il servizio di informazioni inglesi si erano accorti che dal fronte tedesco erano sparite due divisioni corazzate delle SS. Alcuni giovani ufficiali presentarono ai comandi alleati delle fotografie aeree di Arnhem in cui nel terreno soffice della campagna si potevano vedere alcuni segni di cingoli. Gli ufficiali del servizio informazioni suggerirono che i due fenomeni potevano essere collegati: le due divisioni panzer erano state ritirate dal fronte e ora si trovavano ad Arnhem per riorganizzarsi. Se le cose stavano così, l’intera operazione rischiava di essere condannata. I paracadutisti armati di fucili, mitragliatrici e piccoli cannoni non avrebbero avuto nessuna possibilità di resistere ai carri armati tedeschi. Le prove però vennero considerate non definitive e l’attacco fu comunque autorizzato.

I risultati di quell’errore si videro immediatamente: tra le linee inglesi scoppiò il caos. Le radio erano difettose e il comando della divisione perse i contatti con le punte dell’avanzata. Il comandante cercò di andare a vedere di persona cosa stesse succedendo, ma venne tagliato fuori da un contrattacco tedesco e fu costretto a passare la notte in una soffitta per evitare di essere catturato. Nel giro di un’ora l’obbiettivo dell’attacco era cambiato completamente. Non era più questione di conquistare il ponte di Arnhem, ma di sopravvivere al contrattacco tedesco. Mentre nei sobborghi della città proseguiva lo scontro, un piccolo reparto di uomini al comando del colonnello John Frost, senza avere chiaro cosa stesse accadendo al resto della divisione, riuscì a infiltrarsi in città grazie ad una strada secondaria che correva lungo il fiume. Mentre sembrava che il disastro stesse per travolgere l’intera operazione, Frost raggiunse il ponte stradale in mezzo ad Arnhem, uccise i pochi uomini di guardia e occupò una serie di costruzioni strategiche intorno all’uscita nord. Nonostante il ritardo e i fallimenti del servizio informazioni, il ponte di Arnhem era stato conquistato.

Seguirono otto giorni di combattimenti violentissimi. La battaglia si divise in due parti. Nella periferia i tedeschi cercavano di impedire al grosso degli inglesi di prestare aiuto agli uomini di Frost sul ponte. In città, centinaia di soldati combatterono casa per casa nel tentativo di riconquistare il ponte. I tedeschi furono stupiti dalla caparbietà con cui si difendevano gli uomini di Frost. Un inglese catturato raccontò di un ufficiale tedesco gli fece i complimenti per la loro resistenza. «Sono stato a Stalingrado», disse: «È evidente che voi avete esperienza di combattimento urbano». L’inglese rispose che era la prima volta in cui combattevano in una città: «La prossima faremo meglio». Quando i tedeschi inviarono un soldato a chiedere agli uomini di Frost di discutere la resa, gli inglesi gli risposero che gli sarebbe piaciuto: «Ma non abbiamo le strutture necessarie per farvi tutti prigionieri», una scena raccontata anche nel film “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough.

Per quanto la resistenza di Frost fosse eroica, e molto celebrata dopo la guerra dalla propaganda inglese, i suoi uomini non potevano resistere. I piani prevedevano che 10.000 uomini avrebbero dovuto tenere il ponte per due giorni. Dopo quattro giorni di combattimento i superstiti dei 740 uomini che erano riusciti a difendere il ponte si arresero ai tedeschi. Il resto della divisione non era messo in condizioni migliori. I tedeschi erano finalmente riusciti a circondarli, mettendoli con le spalle al fiume. Era questione di ore prima che il perimetro venisse rotto e l’intera divisione annientata. In ogni pausa dai combattimenti, i soldati inglesi lanciavano occhiate verso sud, oltre la riva del Reno. Il piano dell’operazione prevedeva che le truppe di terra sarebbero dovute arrivare in loro soccorso entro il secondo giorno. Ma il quinto giorno, il 21 settembre, non c’era ancora traccia di rinforzi.

L’isola
La geografia era davvero il nemico principale degli alleati. Non soltanto le truppe di terra avrebbero dovuto percorrere in poco tempo cento chilometri di territorio ostile e attraversare una decina di fiumi e canali, ma il terreno in cui avrebbero dovuto compiere quell’operazione era particolarmente disagevole. Gran parte della campagna olandese è stata strappata al mare dall’intervento umano nel corso di innumerevoli generazioni. Si tratta di un terreno morbido, nel quale i veicoli corazzati affondano dopo pochi metri. All’epoca, l’unico modo per avanzare era farlo sul pugno di strade che si intersecavano lungo il corridoio. Questo significava che spesso i carri armati inglesi erano costretti ad avanzare in fila per uno: bastava un unico cannone tedesco ben nascosto in un bosco per rallentare di ore l’intera avanzata. Essere a bordo del primo carro armato incaricato di aprire la strada, in pratica, era una specie di condanna a morte. Il 19, il giorno in cui sarebbero dovute arrivare ad Arnhem, le truppe dell’operazione Garden erano a meno di metà del corridoio. Il 20 settembre, dopo una battaglia difficile, le forze Garden riuscirono finalmente a conquistare il ponte di Nimjen, l’ultima città prima di Arnhem. Mancavano pochi chilometri per salvare la prima divisione britannica, ma quegli ultimi chilometri erano i più difficili dell’intera operazione.

Tra Arnhem e Nimjen esisteva letteralmente un’unica strada che era percorribile dai carri armati. La chiamavano “l’isola” perché era una striscia d’asfalto rialzata di due-tre metri rispetto al terreno circostante, completamente piatto e privo di ripari. Le truppe di Garden erano formate da decine di migliaia di soldati e centinaia di carri armati e veicoli corazzati, ma i numeri non servono a niente quando il fronte della battaglia è largo soltanto alcuni metri. Bastarono pochi cannoni tedeschi nascosti in un villaggio per bloccare l’intera operazione. Mentre le forze di soccorso erano letteralmente impantanate a pochi chilometri da Arnhem, alcuni paracadutisti polacchi vennero lanciati a sud del ponte in un tentativo di soccorso. La notte cercarono di attraversare il fiume su alcuni gommoni, ma furono scoperti e massacrati. Dopo altri quattro giorni di resistenza, i comandanti alleati capirono che non avrebbero più potuto salvare la prima divisione. Ai paracadutisti venne dato l’ordine di attraversare il Reno e mettersi in salvo come potevano. All’alba del 25 settembre, i superstiti cercarono di attraversare il fiume. Ci riuscirono in duemila, mentre altri duemila riuscirono a fuggire nelle campagne. Seimila paracadutisti vennero presi prigionieri. In tutto, 1.500 erano stati uccisi in otto giorni di combattimenti.

La fine
Il generale Bernard Montgomery, uno dei più celebri comandanti alleati, dichiarò che l’operazione Market Garden era stato un successo «al 90 per cento». L’ultimo obbiettivo, il ponte sul Reno, non era stato conquistato, ma tutti gli altri era stati raggiunti. La maggior parte degli storici, e molti generali dell’epoca meno famosi di Montgomery, sono di parere diverso. Come ha scritto Hastings: «Gli alleati avevano conquistato un vicolo cieco che non portava da nessuna parte». Gli alleati non occuparono Arnhem prima dell’aprile del 1945, poche settimane prima della fine della guerra. Il Reno non venne attraversato ad Arnhem, ma molto più a sud, nella città tedesca di Remagen. La guerra non finì a Natale e ci sarebbero stati altri sette mesi di combattimenti prima che il nazismo decidesse di arrendersi. L’operazione che avrebbe dovuto portare alla fine della guerra e che aveva condotto a un inutile vicolo cieco causò la morte o il ferimento di circa 17 mila soldati alleati e di più di 10 mila tedeschi.