In difesa del latino a scuola

Stefano Bartezzaghi ha risposto a una lettera arrivata a Repubblica da un padre scoraggiato dalla passione del figlio per una lingua «inutile»

WASHINGTON, DC - JUNE 20: An installation of 857 empty school desks, representing the number of students nationwide who are dropping out every hour of every school day, is on display at the National Mall June 20, 2012 in Washington, DC. The installation was presented by not-for-profit organization College Board to call upon presidential candidates who are running for the White House to make education a more prominent issue in the 2012 campaigns and put the nation’s schools back on track. (Photo by Alex Wong/Getty Images)
WASHINGTON, DC - JUNE 20: An installation of 857 empty school desks, representing the number of students nationwide who are dropping out every hour of every school day, is on display at the National Mall June 20, 2012 in Washington, DC. The installation was presented by not-for-profit organization College Board to call upon presidential candidates who are running for the White House to make education a more prominent issue in the 2012 campaigns and put the nation’s schools back on track. (Photo by Alex Wong/Getty Images)

Sabato 16 marzo Repubblica ha pubblicato la lettera di un padre secondo cui lo studio del latino a scuola “non serve”, e che diceva di essere triste perché suo figlio, invece, “ama l’inutile latino”. Nella lettera, firmata da Giuseppe Chiassarini, si accusava la classe politica italiana di avere «per decenni ha lasciato che tanti nostri figli impegnassero molte energie per imparare una lingua morta e, peggio, che ha inculcato in loro l’idea che questa lingua morta fosse importante». Oggi, sempre su Repubblica, Stefano Bartezzaghi racconta come è cambiato, da una generazione all’altra, l’approccio allo studio del latino: una volta erano gli studenti a dire che lo studio del latino era inutile, oggi sono i genitori. Vengono inoltre riportati i contenuti di altre lettere, che sostengono e sottolineano l’importanza dello studio di questa lingua, come nel caso delle dimissioni di papa Benedetto XVI: Giovanna Chirri, giornalista dell’ANSA, fu la prima a comprendere l’annuncio proprio grazie alla conoscenza del latino.

Il figlio non aveva avuto le ore di latino previste per quel giorno, e se ne era dispiaciuto perché il «latino è cultura». Il padre si è dichiarato preda di «una grande tristezza e anche di una certa rabbia. La classe politica che per decenni ha lasciato che tanti nostri figli impegnassero molte energie per imparare una lingua morta e, peggio, che ha inculcato in loro l’idea che questa lingua morta fosse importante, è una classe politica a sua volta morta». Certamente la pensa diversamente Giovanna Chirri, la giornalista dell’ANSA che unica fra i colleghi ha capito subito cosa stesse succedendo quando Benedetto XVI annunciava, in latino, le proprie dimissioni.

Chirri è diventata una specie di star internazionale e alla BBC si chiedono quanto morta sia una lingua in cui vengono ancora pronunciate parole capaci di cambiare la storia. Procura intanto un certo compiacimento appurare come nel corso di una sola generazione (nel senso proprio della parola) le parti si siano rovesciate. Ancora negli anni Settanta, quando si può presumere che l’autore della lettera fosse lui in età scolare o pochi anni prima, il latino si studiava anche alle scuole medie inferiori: obbligatorio al secondo anno, facoltativo al terzo, per chi non prevedeva di andare al liceo.

(continua a leggere sulla rassegna stampa del MIUR)

Foto: Alex Wong/Getty Images