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  • Venerdì 9 novembre 2012

L’acustica perfetta

Un capitolo del nuovo romanzo di Daria Bignardi, quello da cui parte tutto

È uscito la settimana scorsa il terzo libro di Daria Bignardi: è un romanzo, si chiama L’acustica perfetta (Mondadori), e racconta la storia di un uomo – un musicista – che una mattina (nel capitolo che pubblichiamo) viene abbandonato senza spiegazioni dalla moglie, e della sua successiva ricerca: di lei e del suo passato, e dei suoi pensieri e sentimenti che non aveva mai capito abbastanza.

Sto suonando il concerto di Schumann alla Carnegie Hall con la Chicago Symphony. Lo sento così profondamente che mi commuovo. Sono esaltato, sono felice. All’improvviso entra un corno a rovinare tutto, maledetto pazzo. In un istante passo dalla gioia alla rabbia, finché capisco che il corno è la sveglia del cellulare e che sto sognando.
Guardo l’ora. Le sette? Perché la sveglia? Chi ha puntato la sveglia alle sette? Dov’è Sara?
Mi giro nel letto, spengo la suoneria, accendo la luce sul comodino. Cos’è questa storia? L’avevo puntata alle otto e mezzo per andare in palestra, sono sicuro.
Mi siedo sul letto. Che cazzo di freddo.

Ti alzi sempre senza sveglia tu, l’avrai messa per sbaglio, stamattina. Ma perché sul mio telefono? Il tuo era scarico? E dove sei? Sarai in bagno. Devo andarci anch’io, mi alzo.
Il bagno è vuoto, guardo in cucina e non ci sei, in soggiorno nemmeno. Cammino nel corridoio buio, mi viene incontro Graffio miagolando e mi si struscia contro i polpacci. Il pavimento è gelato. Sei già uscita? Senza dire niente? Apro piano la porta della stanza dei ragazzi, forse ti sei infilata nel letto di Carlo. Ogni tanto di notte lo fai, se litighiamo, ma ieri non abbiamo litigato, mi pare. O sì? Ma no. Sono venuto a letto prima di te, ti ho aspettato cinque minuti, poi sono crollato. Ho ancora gli arretrati di sonno dalla tournée giapponese.
La stanza dei ragazzi è un casino. Libri per terra, zaini per terra, calzini per terra, dinosauri per terra, ma tu non ci sei. Elia dorme con un braccio penzoloni fuori dal letto e la guancia spiaccicata contro il legno rosso del letto a castello. Carlo, di sotto, è raggomitolato contro il muro. I vetri della loro camera sono appannati come se di notte i due animali emettessero vapore acqueo. Da Maria non entro, ha il sonno leggero e non vuole nessuno nel suo letto, neanche il gatto, si blinda dentro per non farlo entrare. Lì non sei di certo.
Nel bagno dei ragazzi la ciotola di Graffio è piena, in cucina la tavola è apparecchiata per la colazione. Che freddo fa a quest’ora, devo mettere i calzini e devo andare in bagno, però prima torno all’ingresso per vedere se il tuo cappotto grigio è appeso all’attaccapanni. Non c’è. Nemmeno la sciarpa e neanche la borsetta nera, né le chiavi sulla mensola col portachiavi orso di peluche che ti ha regalato Carlo.
Sarai uscita a comprare qualcosa, forse mancano i biscotti preferiti di Maria o il latte ad alta digeribilità di Elia. Sei tu che gli hai dato queste abitudini, fosse per me, mangerebbero quel che c’è.

Sono le sette e cinque adesso, la sveglia dei bambini è tra un quarto d’ora. Eppure lo sapevi che oggi volevo dormire fino alle otto e mezzo e poi andare in palestra… arriverai entro cinque minuti. Vado in bagno a pisciare che me la faccio addosso, con questo gelo poi.
In cucina c’è la mia moka pronta: accendere il fornello è la prima cosa che faccio appena alzato. Accanto alla mia tazza con la faccia di Beethoven preparata sul piano di marmo, accanto alla zuccheriera, c’è una busta bianca con scritto il mio nome. È la tua grafia. Una busta per lasciarmi detto che scendi a prendere il latte? Siamo formali, stamattina. Mi avrai scritto un’altra delle tue lettere dolenti e chilometriche, era un po’ che non lo facevi. Non muoio dalla voglia di leggerla: sono anni che scrivi le solite cose, non vere, che mi descrivi in un modo in cui non mi riconosco, che pretendi di sapere quello che penso e sento, ma il più delle volte sbagli. Lascerò che ti sfoghi. Parli da sola, ormai. Fammi pisciare, almeno, prima di leggerla. Intanto, apro la busta. Dentro c’è un foglio di carta da lettera, lo spiego, sono poche righe, meno male.
La tua scrittura è inconcepibile per una persona che disegna come disegni tu, ma stavolta ti sei sforzata di scrivere meglio, anche se ti pendono le T e le L da tutte le parti. Non leggo senza occhiali, con questa luce fioca. Dove li avrò messi?
Torno in camera da letto, saranno sul comodino. Non ci sono, dannazione… Aspetta, li ho lasciati ieri sera sulla mensola del bagno per leggere il foglietto di istruzioni dello shampoo anticaduta. Vado in bagno, così finalmente mi libero la vescica, la tavoletta è ancora alzata da ieri sera, segno che hai usato il bagno dei bambini. Lo fai, ogni tanto, per non disturbarmi. Vado in cucina, mi siedo al tavolo, infilo gli occhiali e cerco di decifrare la tua scrittura aggrovigliata:

Arno, devo partire. Sai quando devi fare una cosa per forza? Ho bisogno di stare da sola, di andare a caso, di uscire dalla gabbia che mi sono costruita. Non ti dico dove vado né quando torno perché non lo so. Pensa tu a cosa dire ai bambini.
Ciao, S.

È uno scherzo. I primi anni me ne facevi, di divertenti. Però il ventun dicembre, quattro giorni prima di Natale, con tutto quello che c’è da fare per partire dopodomani, non mi sembra momento da scherzi e questo non fa neanche ridere. Ti chiamo.
Il cellulare è staccato. È uno scherzo, va bene, starò al gioco, meglio così di quando fai la vittima o scrivi lettere assurde… ma cosa dico ai bambini, adesso? Niente, dirò che la mamma è uscita prima del solito. Mando a scuola Maria, accompagno i ragazzi… entro le due, quando rincasa Maria, sarai tornata, appena esci dallo studio ti precipiti sempre a casa per mangiare con lei. Quando ho provato a invitarti a pranzo in centro come facevamo una volta mi hai detto che avevi paura si scottasse con l’acqua della pasta, se la lasciavi da sola. Io, alla sua età, preparavo ogni sera la cena per me e Guido. Comunque oggi non lavoro, starò a questo gioco scemo, rimarrò a casa, anche se stamattina avevo solo voglia di andare in palestra, correre, sudare e poi farmi una bella sauna e la vasca di reazione con l’acqua ghiacciata. E magari un massaggio svedese col massaggiatore nuovo: ha detto Guido che ne vale la pena. Anzi, ora li porto a scuola e ci vado lo stesso in palestra, che cavolo.
Tra poco ti chiamo al lavoro e fingerò di aver trovato il tuo scherzo divertente. Adesso sveglio tutti e mi butto sotto la doccia. Che palle fare le cose in fretta, che scherzo cretino, Sara, a quarantatré anni, quattro giorni prima di Natale, sei proprio una ragazzina, quando crescerai?

Ho chiamato in studio alle nove, non è ancora arrivata. Ho richiamato dopo la palestra, alle undici e mezzo. Non è andata. Dove accidenti sei finita, Sara? Ho improvvisato che forse dovevi andare a Genova da tuo padre, che non ero sicuro… le vacanze iniziano dopodomani, che bell’idiozia ti sei inventata stamattina. Il cellulare è ancora staccato. Aspetterò Maria a casa, non si sa mai che la fai lunga con questa stupidaggine. Le preparerò una pasta al pomodoro. O al burro, che tu non la fai mai e a lei piace.
Continui ad avere il telefono spento. Che silenzio c’è, al mattino. Entra anche una bella luce, da mezzogiorno. Graffio dal tavolo di cucina si è trasferito sulla poltrona del soggiorno, quella rigida davanti alla finestra dove leggi tu. Metto un po’ di musica. La Sonata in Si maggiore di Schubert. Che figo era Richter. Dicevano che da giovane studiasse dodici ore al giorno, ma lui negava: «No, mai più di tre». Anch’io mai più di tre, ma non me ne vanto.
Ora mi leggo il giornale on line. Non si sta male, a casa, la mattina, senza nessuno. D’ora in poi mi sa che il lunedì, invece di passare la mattina in palestra e andare a colazione con Guido, me ne torno qui. Magari mangio con voi, una volta alla settimana. Preparo io e quando arrivate pranziamo insieme.
Suona il campanello, eccoti finalmente!
Premo due volte il pulsante che apre il portone d’entrata e spalanco la porta di casa. Sento uno scalpiccio sulle scale, arriva Maria trafelata: «La mamma?». È da sola.
Ero convinto che saresti andata a prenderla a scuola, per farle una sorpresa. Non mi sono preparato niente da dire, ero sicuro che saresti tornata con lei. Improvviso: «È dovuta andare via». Maria è perplessa: «Via? Via dove? Senza dirmelo?».
Per fortuna non fa altre domande. Si siede a tavola, mangia la pasta al burro in silenzio, assaggia appena la mozzarella che le ho tagliato a fette, si alza senza sparecchiare il suo piatto e si butta sul divano del soggiorno, davanti alla televisione. L’accordo con te è che dopo pranzo può guardare mezz’ora di televisione «per riposarsi». Dici sempre che quando torna a casa dopo cinque ore di scuola è stravolta, che non parla. In effetti è stravolta e non parla. Ce la lascio anche due ore io davanti alla televisione, ma adesso devo pensare a cosa fare, se questo scherzo continua, perché i ragazzi escono alle quattro e mezzo.

Mi sa che oggi Carlo ha violino ed Elia qualcos’altro, non mi ricordo chi va da solo e chi con la mamma di chi… richiamo Sara. Staccata. Voleva farmi capire come è fatta una sua giornata? Lo so come sono le sue giornate, cazzo, l’ha scelto lei di lavorare part time, ha scelto lei tutto: di non avere baby-sitter, di rimanere a casa coi figli per anni, di fare solo lavori inutili, di non provare a pubblicare Katrina. Ha deciso tutto da sola, sempre, non può darmi la colpa di niente, si è scelta lei la vita che fa, cazzo, porca puttana, ora mi sto incazzando, non è che diceva sul serio in quel biglietto? A chi posso telefonare? A suo padre? Forse è andata a Genova. L’ha appena fatto, di scappare un giorno al mare. Si era portata i ragazzi, però. Ed era sabato.
Amici non ne ha, un’altra delle sue assurdità: ti pare che una persona che abita a Milano da quindici anni non si sia fatta un’amica? Non che a Genova ne avesse tanti, è sempre stata un lupo solitario. Un tempo ero affascinato dal suo modo di vivere, ma oggi… mi sembra… bizzarro è dir poco. Ha un sacco di conoscenti strampalati che tratta familiarmente, come parenti: la signora dell’alimentari che tiene seduta vicino alla cassa la madre con l’ictus, il professore di greco rimbambito che esce solo col badante senegalese, il badante senegalese che accompagna il professore rimbambito, la portinaia peruviana del palazzo di fronte, l’insegnante giapponese di violino di Carlo… ma questi non sono amici veri, normali. Non è che posso chiamare la portinaia e chiederle se sa dove è sparita mia moglie, cazzo. Mi sto arrabbiando. Maria tra poco mi viene a chiedere dov’è sua madre e io cosa le rispondo? Che non lo so? Che quella pazza di sua madre quattro giorni prima di Natale mi sta facendo un cazzo di scherzo idiota o che è sparita davvero, partita per non si sa dove, questa deficiente, infantile, cretina?

Speravo che Maria si lasciasse ipnotizzare dalla tv come al solito, invece alle tre l’ha spenta e mi è comparsa davanti, in cucina, mentre mi sto preparando un caffè. Sono troppo incazzato per mangiare.
«Dimmi dov’è la mamma» mi chiede. Ha undici anni, quasi dodici, li compie tra un mese, io alla sua età mi sentivo adulto… le dico la verità.
«Non lo so. Ha scritto in un biglietto che andava via per un po’, ma credo mi stia facendo uno scherzo, sai com’è la mamma. Forse è stressata per il Natale o forse vuole farmi capire qualcosa della vita che fa» le rispondo, tranquillo.
Maria mi guarda: «Fammelo leggere, il biglietto». Glielo mostro. Legge, rilegge, me lo restituisce: «Non è uno scherzo, è andata via davvero». Questa poi.
«E tu come lo sai?» la prendo in giro.
«Lo so. È mia madre» risponde. Sembra stia per piangere, poi dice: «Elia oggi dopo la scuola va in piscina con la mamma di Filippo, lo riporta a casa lei dopo le sei, Carlo ha violino qui alle cinque, esce da scuola alle quattro e venti, vai a prenderlo tu?».
So che non dovrei farlo, ma mi viene naturale chiederle: «Cosa gli diciamo?».
«La verità, cosa vuoi dirgli? Che è andata via.» 64
«Quattro giorni prima di Natale? Che assurdità. E poi sono sicuro che non è andata via. Che è uno scherzo.»
«Papààà» strilla Maria, «non è uno scherzo…!»
Rispondo bruscamente: «Ma cosa stai dicendo, cosa ne sai tu?». Si mette a piangere. La abbraccio. Che situazione del cazzo, Sara,
ci sei riuscita a farmi finire nel melodramma, eh? Sarai contenta. Accarezzo la testa di Maria, le dico che prima che lei nascesse me ne facevi tanti, di scherzi, che tu in realtà sei più giocherellona di quello che sembra. Smette di piangere: «Lo so benissimo com’è la mamma, abbiamo sempre giocato insieme, ma questo non è uno scherzo».
Tira su col naso, poi dice che va in camera sua a studiare francese, che domani ha l’ultima verifica prima delle vacanze.

Vado a prendere Carlo alle quattro e venti, lo aspetto fuori da scuola, sul marciapiede, in mezzo all’assembramento dei genitori. Le quinte usciranno tra dieci minuti, potrei anche aspettare Elia per salutarlo, ma forse è meglio rimandare le spiegazioni alle sei, quando rientrerà dalla piscina. Anche se sono sicurissimo che entro le sei Sara torna, me lo sento.
Che caos tremendo, non è il modo di far uscire i ragazzi da scuola. Tutti i genitori ammassati sul marciapiede al gelo e i bambini che sbucano da un budello di portone, con la maestra che se non vede il genitore non molla il bambino, ma come fa con questo casino a vederlo? Ci sono soprattutto mamme, nonne, baby-sitter e qualche nonno. Pochissimi padri. Riconosco il padre di un compagno di Carlo, uno di quelli che l’anno scorso rimaneva più spesso a cena da noi… Sara mi aveva detto che era un manager, e ora è qui sul marciapiede in jeans e piumino. Fa un cenno e un sorriso di complicità, come a dire “siamo gli unici due padri, eh…”.

Quando la terza di Carlo si affaccia al portone, lo distinguo subito tra gli altri, è il più biondo della classe, ha preso da mia madre, mentre io ho i capelli neri di Guelfo, come Maria. Si ferma sui gradini per scrutare la folla ma non mi individua, nonostante mi stia sbracciando nel casino di mamme con bimbi piccoli nel passeggino, nonne con ombrello aperto anche se piovono solo due gocce, baby-sitter con cani al guinzaglio. Non mi trova perché non è abituato a vedermi qui, cerca la faccia di Sara. La maestra gli fa un cenno e mi indica – che brava, mi ha visto così poche volte –, e lui corre verso di me sorridente, non chiede dov’è la mamma e io non do spiegazioni, due ore guadagnate.
Dice solo: «Che bello che sei venuto tu. Prendiamo la cioccolata calda con la panna al bar che prima di violino ho bisogno di energie?». Deve essere la scusa che si era preparato con Sara per ottenere uno strappo all’assurda regola della «cioccolata solo nei giorni di festa».
Carlo è l’unico dei miei figli che potrebbe avere un vero talento per la musica. Tutti suonicchiano, ma l’unico che lo fa con passione è lui. Elia studia pianoforte senza entusiasmo, Maria non ne parliamo. Questo figlio non previsto è venuto fuori così: biondo come un tedesco, allegro, talentuoso. Per lui sembra tutto facile.
Entriamo nel bar di fronte alla scuola, ci sediamo, ordino una cioccolata anch’io, è dolce e confortante. Non ho fatto colazione e non ho pranzato, ho bevuto solo due caffè da stamattina e un litro d’acqua coi sali minerali in palestra, che giornata assurda. Però, adesso, seduto in questo bar affollato di bambini, zaini, mamme, con Carlo e le nostre cioccolate calde con la panna, sono sicuro che il tuo è uno scherzo, o forse un regalo: volevi farmi sperimentare un pomeriggio coi bambini, una giornata a casa… non è male, sai? Hai fatto bene a obbligarmi a provare. Magari d’ora in poi il lunedì, che non lavoro quasi mai, sto io con loro, e tu ti prendi una pausa, vai al cinema, a una mostra. Oppure pranziamo tutti insieme.
Faccio per telefonarti e dirtelo, quel che ho deciso, voglio ringraziarti per avermelo fatto capire, ma preferisco non rischiare di non trovarti davanti a Carlo. Tanto sono sicurissimo che prima delle sei, quando terminerà la lezione di violino ed Elia rientrerà dalla piscina, sarai tornata anche tu. Bene gli scherzi e i regali, ma non faresti mai agitare i bambini, sono sempre stati il tuo primo pensiero, anche troppo.
Arriviamo a casa e l’insegnante è già seduta al tavolo del soggiorno. Maria le ha preparato un tè, come è brava quando vuole, altro che scottarsi con l’acqua bollente. Eiko parla con un accento da film comico: «Buonasera Arno. Pronto per ultima lezione prima di Natale, Carlo?». Sara dice che Eiko è spiritosa, ma non me ne sono mai accorto. È brava, e mi basta: l’ho conosciuta ai Pomeriggi Musicali, è una ragazza che farà strada.
Ho un’ora di tempo. Hai un’ora di tempo per tornare, Sara. Ti aspetto. Appena ti vedo ti bacio con la lingua, davanti a tutti. Una volta mi hai detto che non lo faccio più. Che ti bacio in bocca solo quando facciamo l’amore. In effetti non mi viene da baciarti in bocca, se non facciamo l’amore, ma è normale dopo tanti anni di matrimonio. Sapessi cosa fanno certi miei colleghi in tournée… altro che non baciare la moglie in bocca.
Mi siedo al computer, rispondo alle mail arretrate, guardo le previsioni del tempo per dopodomani ad Anghiari. Freddo becco. Sono tentato di scrivere a Massimo, ma per dirgli cosa? “Sara è sparita da dieci ore, mi sta facendo uno scherzo che forse è un regalo, come quando stavamo in via Gola, te la ricordi la casa col soppalco dove dormivi mezzo nudo sul divano?”
A lui potrei dirlo e magari lo farò. Tanto ora arriva di sicuro.

Alle sei Eiko chiama dal soggiorno: «Io vado. Posso lasciare regalo per cara Sara?» dice porgendomi un pacchetto azzurro. Non so cosa risponderle. Perché stai tardando tanto, Sara? Ti perdi gli auguri di Eiko, sono certo che avevi anche tu un regalo da darle, uno dei tuoi regali creativi, un disegno, una pietra, un libro degli anni Settanta. Fai sempre bei regali a tutti, tu. A me ne hai fatti tanti, anche se ogni anno sono meno originali… Parlo io che ti regalo sempre orecchini, o borsette che non usi mai.
«Buone feste anche a lei» dice Carlo, educato. Mi guarda per67
plesso. Si starà chiedendo dove è finita sua madre. Mentre accompagno Eiko alla porta suona il citofono. Eccola! Eccoti, amore mio. Che entrata spettacolare, brava, hai calcolato i tempi al millesimo, hai sempre avuto un istinto teatrale, tu. Modulo un «sììì» affascinante – almeno credo – al citofono, ma sento gracchiare in risposta un «buonasera, glielo mando su».
È la madre di Filippo che accompagna Elia, cazzo, non sei tu. Apro, urlo «grazie» nel citofono e sento Elia salire i due piani di scale correndo, mentre Maria esce dalla sua stanza ed Eiko esce di casa. Ci ritroviamo tutti e quattro all’ingresso: Elia con il piumino addosso, Carlo con il pacchetto di Eiko in mano, Maria con l’iPod infilato nelle orecchie. Mi guardano tutti, mi fissano con aria interrogativa, come a dire “cosa ci fai qua tu, che non ti abbiamo mai visto in casa a quest’ora, dov’è nostra madre?”. Io sorrido e dico allegramente: «Ragazzi, la mamma mi ha fatto uno scherzo di Carnevale a Natale. Mi ha lasciato un biglietto con scritto che andava via qualche giorno. Si accettano scommesse: secondo voi torna prima o dopo cena? E soprattutto, cosa si mangia stasera?».
Carlo ride, Elia guarda incerto sua sorella, Maria alza gli occhi al cielo ma accenna un sorriso. Nessuna tragedia. Ce la possiamo fare. Che cazzo di scherzo cretino mi stai facendo, Sara. Volevi mettermi in difficoltà di fronte ai miei figli? Non ci riuscirai. Io ci sono, cosa credi? Faccio un lavoro di responsabilità, mica come te che hai scelto di non rischiare, di nasconderti in casa. Io ci sono sempre stato per la mia famiglia, per te, per i ragazzi, non mi sottovalutare, Sara, sono più di dieci anni che mi sottovaluti e io mi sto rompendo le palle. Vuoi fare la matta prima di Natale? Cosa vuoi dimostrare? Accomodati, Sara, io sono qui.

Sono quasi le dieci di sera e ho appena spento la luce in camera dei ragazzi, dopo avergli letto una storia lunghissima. Gli ho dato la buonanotte promettendo con aria da cospiratore che domani «risolviamo il giallo della mamma», quando mi arriva sul telefono una tua mail spedita dall’iPhone. La leggo tre volte.

Ciao Arno, ho preso un treno stamattina presto. Vado via per un po’.
Mi dispiace per il Natale, ma non è davvero importante passarlo insieme, i ragazzi lo sanno quanto gli voglio bene e capiranno che la mamma ha bisogno di stare sola, in fondo sono dodici anni che non li lascio mai. So che te la cavi e che Rino e Klara capiranno. Ti scrivo tra qualche giorno, preferisco non sentirvi al telefono se no magari non ce la faccio a stare via, ma devo, credimi, devo, se no non lo farei.
Un bacio, S.

Via per un po’? Non è importante vedersi a Natale? Questa è impazzita come sua madre.
La chiamo subito, il telefono è staccato. Le scrivo di getto:

Sara, torna subito, per favore. Appena è possibile ci organizziamo e vai dove vuoi, ma ora ho bisogno di te, non ero preparato, e poi è Natale. Ti amo tesoro, torna subito.

È la notte tra il ventuno e il ventidue dicembre. Fuori si gela, il termometro sul balcone segna meno tre. Ci sono le stelle. Non avevo mai visto le stelle a Milano, d’inverno, o non ci avevo mai fatto caso.
Controllo le mail sul telefono ogni due minuti, ma Sara non risponde. Alle dieci e un quarto vado in camera di Maria a leggerle la mail di Sara e la mia risposta, le dico che ti convincerò a tornare, provo a scherzare, a buttarla sul ridere. Le faccio il solletico, la abbraccio. Sto cercando di metterla coi ragazzi come fosse un gioco, di sdrammatizzare, e per ora mi pare di riuscirci, anche se sono incazzato nero. I bambini mi sembrano sereni, come se il gioco della mamma in fuga in fondo gli piacesse, come fossimo dentro uno di quei gialli di Geronimo Stilton che leggono loro: Il mistero della mamma scomparsa. Maria è più strana, ma non disperata o triste, solo strana, misteriosa. Sembra quasi che se lo aspettasse, anche se è assurdo pensarlo. Va a dormire dopo avermi abbracciato forte, un abbraccio adulto, quasi protettivo. Come è diventata grande questa bambina, in poco tempo.
Guardo la televisione fino all’una e mezzo. Prima serata, secon69
da serata, terza serata, faccio zapping, non vedo nulla di quello che guardo, controllo il cellulare ogni tre minuti, provo a chiamarti dieci volte, guardo canali satellitari che non sapevo nemmeno esistessero.
Alle due ti scrivo una mail:

Sara, questo è un comportamento irresponsabile, non puoi farmi una cosa del genere. Cosa dico a tuo padre, cosa dico ai miei che ci aspettano ad Anghiari per Natale, a mio fratello, ai tuoi colleghi, a tutti quelli che ci chiameranno per gli auguri? E dove accidenti vai? Vuoi passare il Natale da sola? Ti deprimerai, tra ventiquattro ore starai male, ti pentirai. Torna subito. Se torni domani, dopodomani partiamo tutti insieme per Anghiari come al solito. Fallo, Sara, ascoltami, fidati per una volta, se no diventa imbarazzante e brutto per tutti ma soprattutto per i bambini. Guarda che gli ho detto la verità, l’ha deciso Maria, ha letto il tuo biglietto e anche la mail, sta reagendo bene ma ha pianto, ti sembra una cosa da fare ai tuoi figli e a tuo marito, questa? A Natale? È un gesto da egocentrica, da sciroccata e anche da stronza, non puoi non rendertene conto, sei troppo intelligente.
Comunque torna, e ne parliamo. Mi sta bene tutto, se hai bisogno di stare da sola starai da sola, ma non così, non adesso. Per favore, Sara, non fare cazzate, ti aspetto. A.

Dopo aver spedito la mail mi addormento sul divano. Mi sveglia alle sette e un quarto Maria in pigiama, scrollandomi e chiedendo: «Ha risposto?».
Controllo, non ha risposto. Non ci credo. Non ci credo che fai sul serio, Sara. Non puoi farmi una cosa così.