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  • Mercoledì 19 settembre 2012

«Ah, lucky Sergio»

Paolo Griseri racconta in un libro di Einaudi quando Marchionne arrivò alla FIAT, "tecnicamente fallita", e come sciolse l'accordo con General Motors

Sergio Marchionne, CEO of Fiat SpA, attends a press interview at the Italian auto maker’s joint venture plant with Guangzhou Automobile Corp (GAC) in Changsha, capital of central China’s Hunan province, Thursday June 28, 2012. Fiat-Chrysler APAC announced the start of production of the Fiat Viaggio at the GAC-Fiat’s joint venture facility in China. (AP Photo) CHINA OUT

Sergio Marchionne, CEO of Fiat SpA, attends a press interview at the Italian auto maker’s joint venture plant with Guangzhou Automobile Corp (GAC) in Changsha, capital of central China’s Hunan province, Thursday June 28, 2012. Fiat-Chrysler APAC announced the start of production of the Fiat Viaggio at the GAC-Fiat’s joint venture facility in China. (AP Photo) CHINA OUT

Paolo Griseri, giornalista di Repubblica, ha scritto per Einaudi “La FIAT di Marchionne”, che racconta la storia della FIAT negli ultimi otto anni, dal quasi-fallimento alla fusione con Chrysler fino all’incerta situazione attuale. Griseri parla del suo libro oggi alle 18, al Circolo dei Lettori di Torino, insieme a Sergio Chiamparino, Marco Simoni e Salvatore Tropea. Di seguito l’inizio del quarto capitolo, che racconta l’arrivo di Marchionne alla FIAT.

Sergio Marchionne irrompe alla guida della Fiat il 1° giugno 2004. Quel giorno il consiglio di amministrazione fissa i ruoli in quella che sarà la squadra della rinascita. «Farò il presidente di supporto», spiega subito Luca di Montezemolo, da poche ore numero uno del Lingotto e da pochi giorni al vertice di Confindustria.

Dopo la conferenza stampa che segue il consiglio Fiat, Montezemolo si trasferisce all’assemblea degli industriali torinesi e confida: «La presidenza di Confindustria me la sono cercata. Quella di Fiat non me la sarei mai aspettata. Ma alla Famiglia Agnelli non potevo dire di no». Nella nuova squadra la Famiglia è rappresentata dal ventottenne John Elkann, da tempo in consiglio di amministrazione della Fiat dove lo aveva voluto il nonno. Ora assume la vicepresidenza del gruppo.

Sergio Marchionne compare nella sala stampa del Centro storico Fiat per la foto di rito e, naturalmente, indossa giacca e cravatta. Sarà, quella, una delle rare occasioni. Poi, negli anni successivi, il maglioncino la farà da padrone. Sarà necessario attendere l’audizione alla Camera nel 2011 per trovarlo nuovamente con una cravatta che gli stringe il collo. Marchionne illustra subito il suo programma di lavoro: «Confermo che ci muoveremo seguendo il piano messo a punto dal dottor Morchio. È un piano approfondito che abbiamo tutta l’intenzione di completare. Prometto che lavorerò duro, senza polemiche o interessi politici. Il lavoro di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione».

In quella estate del 2004 il quadro che il nuovo amministratore delegato della Fiat si trova di fronte è decisamente impegnativo. Bisogna combattere su piú fronti contemporaneamente e, soprattutto, bisogna farlo in fretta. Sul fronte della finanza ci sono due appuntamenti da rispettare: all’inizio del 2005 scade la proroga del termine oltre il quale Gm sarebbe costretta a esercitare l’opzione «put» e a comperarsi Fiat Auto. Umberto Agnelli e Morchio avevano ottenuto di prolungare di un anno quella data ma è chiaro che ottenere una nuova proroga da Gm sarà molto difficile. Il secondo grande nodo finanziario è quello della scadenza del credito da 3 miliardi di euro concordato con le banche. Entro settembre 2005, se la Fiat non avrà restituito il debito, i banchieri potranno trasformare il denaro in azioni Fiat e, come per incanto, diventeranno i principali azionisti della società. Sarebbe comunque molto difficile che otto banche, italiane e straniere, riescano a esprimere un punto di vista univoco sulle scelte strategiche del gruppo. Ma è un fatto che, se su alcune di quelle scelte avessero trovato una linea comune, gli Agnelli sarebbero stati in minoranza. In ogni caso, se i banchieri avessero messo le mani nella stanza dei bottoni, lo avrebbero fatto solo per vendere al piú presto, essendo quello dell’automobile un mestiere che non conoscevano. Da qui il timore che con le banche sarebbe arrivato il cosiddetto «spezzatino» della Fiat, lo smembramento con la vendita a diversi acquirenti di questa o quella parte del gruppo.

I due nodi finanziari non arrivano per caso. Ognuno ha una storia alle spalle iniziata quando, nel cuore della crisi, era nato nella Famiglia degli azionisti un solido gruppo che riteneva l’auto un prodotto maturo, in cui non si sarebbe piú investito in modo redditizio. A ben pensarci i due nodi del 2005 finiscono per rappresentare altrettante occasioni attraverso cui la Famiglia può abbandonare l’auto. O costringendo la Gm a prendersela – in virtú di un accordo capestro per il quale gli Agnelli non cesseranno mai di ringraziare Paolo Fresco – o lasciando che siano le banche a mangiarsela, semplicemente evitando di restituire il debito e scambiando le azioni Fiat Spa ormai in mano alle banche con la proprietà degli istituti di credito sull’auto. Nell’estate del 2004, appena assunto l’incarico di amministratore delegato, Marchionne potrebbe insomma comportarsi da commissario liquidatore lasciando che «put» e credito convertendo facciano il loro corso. Ma la strada della cessione dell’auto era stata scartata già durante la presidenza di Umberto Agnelli. E la stessa nomina di Marchionne al posto di comando operativo viene letta da tutti come una scommessa sulla possibilità che l’auto possa riprendersi: l’uomo è stato scelto perché ha fama di risanatore, non di liquidatore. Non molti tra gli osservatori esterni, per la verità, credono a un possibile turnaround. Ma qualche segnale positivo comincia a vedersi. Nelle ore immediatamente successive all’annuncio della nomina di Marchionne, il titolo in Borsa sale a quota 6 euro con un balzo del 4,6 per cento. Gli analisti, comunque, sono prudenti: piú che alla possibilità di rilancio della cura Marchionne, il rialzo viene letto come l’apprezzamento della Borsa al fatto che gli Agnelli hanno saputo sostituire in pochissimo tempo l’amministratore delegato dopo l’improvvisa defezione di Giuseppe Morchio.

Per vincere la sfida della rinascita Fiat è comunque necessario lavorare su altri due fronti, oltre a quelli finanziari: il prodotto e l’immagine. I segnali incoraggianti ottenuti con il lancio della nuova Panda e della Ypsilon vanno consolidati con un impegnativo calendario di uscita dei modelli, nonostante le scarse risorse a disposizione. Sul piano dell’immagine la situazione è semplicemente disastrosa. Nel corso del tempo il Lingotto ha perso smalto e i suoi marchi ne hanno risentito. Al punto da diventare sinonimo di sfiga. Già dagli anni Novanta un settimanale satirico come «Cuore» organizza il «Dunaraduno», improbabile appuntamento destinato a tutti gli sfortunati possessori del modello di world car che precedette la Palio. Dieci anni dopo la stessa Stilo diventa oggetto di satira e battute nei talk show: il modello è diventato, suo malgrado, il simbolo della fase piú dura della crisi del Lingotto, nei mesi in cui molti pensano che Torino finirà per portare i libri in tribunale. Questa pessima immagine finisce per contagiare gli stessi dipendenti del gruppo, demoralizzandoli.

Il primo punto di appoggio sul quale farà leva Marchionne per il rilancio sarà proprio quella depressione.

È chiaro che a nessuno piace lavorare in un’azienda che è diventata sinonimo di pessima qualità, di vecchio, di una idea superata dell’automobile. A nessuno piace vergognarsi in pubblico del lavoro che fa. Marchionne cambia la prospettiva: non deprimerti, è il messaggio subliminale, sono quelli che ti giudicano che sbagliano, gli sfigati sono loro. La prima mossa su questo terreno la compie Luca di Montezemolo il giorno della nomina a presidente: «Ho incontrato questa mattina gli imprenditori di Varese – dice alla platea dell’Unione Industriale di Torino – e ho trovato un impegno positivo e qualche speranza di ripresa. Però ho detto loro che c’erano un po’ troppe Bmw in giro». Comincia cosí l’operazione orgoglio. L’asse del messaggio rimarrà lo stesso fino a oggi (con qualche variante e molte conseguenze imprevedibili nel 2004): la Fiat è l’Italia, non può essere calpestata o ridotta a barzelletta. Chi attacca la Fiat, attacca anche te: digli di smettere.

C’è un fondo di verità in questo messaggio, ed è il motivo per cui ha avuto successo, almeno all’inizio, anche in aree sociali o politiche che non erano naturalmente portate a considerare in modo di per sé positivo le scelte del Lingotto. Il fondo di verità è che la Fiat, nel corso del Novecento, è stato effettivamente uno dei pochi punti di riferimento davvero nazionali in un Paese diviso in Nord e Sud, capitalisti, pseudocapitalisti, tute blu e colletti bianchi. Per contrapposizione o per adesione, una larga fetta della popolazione ha dovuto farci i conti. L’idea che sparisca, umiliata dai commendatori milanesi in auto blu tedesche, sciolta nell’acido del piú grande gruppo mondiale, la Gm, con sede nella lontana Detroit o ridotta a fettine dai signori delle banche, può suscitare una reazione negativa non solo a Torino (che continua a dipendere per una buona parte dalle scelte del Lingotto) ma anche nel resto della nazione. Da quella reazione può ripartire sia la voglia di risalire la china dei dipendenti del gruppo, sia la voglia di acquistare i nuovi modelli della rinascita da parte del pubblico italiano.

L’idea è quella di creare una riscossa positiva fondata sull’orgoglio, che parta dalle linee di montaggio e arrivi all’intera società. Il successo che già all’inizio dell’anno avevano incontrato le felpe con la gigantesca scritta Fiat disegnate da Lapo Elkann, eccentrico e geniale fratello del vicepresidente del gruppo, è lí a dimostrare che la strada della riscossa è possibile. Se il marchio Fiat, lo stesso che compare sul cofano della Stilo, può addirittura diventare una griffe, un oggetto alla moda nel jet set, è chiaro che non tutto è perduto. La novità non riguarda solo la possibilità di rilancio di un marchio ormai considerato perduto. Senza esagerare nella ricerca di significati, in quelle felpe c’è un tentativo di superamento dell’idea novecentesca della fabbrica come sinonimo di divisione e contrapposizione. Il gioco dell’identità, l’identificazione di chi lavora per la Fiat con l’azienda – quel gioco che non era riuscito a Romiti, pur vincitore dello scontro del 1980, con il lancio della qualità totale e della fabbrica integrata – comincia a riuscire quasi per caso al meno prevedibile dei discendenti della Famiglia nella fase piú difficile della vita del Lingotto, quando è in discussione la sopravvivenza stessa dell’azienda. Per questo nessuno avrebbe scommesso, solo pochi anni prima, che sarebbe diventata di moda una maglia azzurra con la cerniera e il marchio del gruppo di Torino.

C’è un ultimo aspetto da sottolineare: tutto questo accade mentre la Fiat è debole, mentre rischia il fallimento. In quel momento il marchio non è piú sinonimo di organizzazione aziendale gerarchica, di ferrea disciplina, di capi indifferenti alle esigenze dei sottoposti, di lavoro alienante, ripetitivo. Nell’immaginario, la Fiat non è piú una grande caserma che produce automobili e conflitto sociale. È piuttosto centinaia di migliaia di posti a rischio, un insieme di mestieri e abilità sedimentati da un secolo che rischia di sparire, l’ultima grande impresa (per quanto solo «semi-internazionale», come diceva l’Avvocato) che porta l’Italia in giro per il mondo. Non è piú, in sostanza, un’identità forte di cui diffidare, ma una parte dell’identità di ciascuno da difendere, a cui aggrapparsi. Anche mettendosela addosso. Non è un caso che proprio il rischio di quella perdita produca nella società una vasta adesione al progetto di salvataggio. Quella concordia comincerà a svanire cinque anni dopo, con una Fiat nuovamente forte che torna a dividere, a decidere chi è al passo con i tempi e chi è arretrato, a dare i voti a questa o quella parte della società italiana. Come nel Novecento. Allora, di nuovo, non ci saranno felpe né maglioncini in grado di evitare lo scontro.

2. La ristrutturazione.
L’estate del 2004 verrà ricordata da molti dirigenti intermedi Fiat come quella della grande epurazione. Non tanto e non solo per il numero di coloro che devono lasciare l’azienda, ma per il modo diretto e del tutto inatteso con cui il nuovo amministratore delegato comunica ai prescelti che l’azienda ha deciso di interrompere il rapporto di lavoro. Non c’è solo il maglione a segnare il cambiamento dei tempi. Marchionne porta in Fiat una diversa idea di organizzazione del lavoro e implementa quei principî della fabbrica snella che Romiti aveva solo enunciato senza riuscire ad applicarli nell’ultimo periodo di permanenza ai vertici del Lingotto. Uno di quei criteri, quello dell’appiattimento della piramide del comando, Marchionne lo aveva già praticato nella ristrutturazione di Sgs, quando aveva ridotto da nove a cinque i livelli della scala decisionale [M. Ferrante, Sergio Marchionne, il manager delle quattro vite, in «Il Foglio», 23 aprile 2005]. Scelta popolare tra gli operai quella di tagliare il numero dei capi, cioè dei controllori. Appiattire la piramide significa ridurre la distanza tra chi decide e chi produce. E in fabbriche gigantesche come Mirafiori quella distanza era spesso abissale. Frutto di una rigida organizzazione piramidale modellata su quella dell’esercito sabaudo e dettata dalla stessa logica dei numeri: come far funzionare uno stabilimento con 50 000 addetti (all’inizio degli anni Settanta) senza un congruo numero di sergenti, marescialli, capitani e colonnelli? Tra gli operai circolava, negli anni di massima occupazione a Mirafiori, la barzelletta del pingue leone che consiglia all’amico di andare a caccia davanti ai cancelli della Fiat: «Ti piazzi lí, aspetti l’orario di uscita dalla palazzina degli Enti centrali e ogni giorno mangi un dirigente. Tanto non se ne accorge nessuno».

Se queste erano le ironie di trent’anni prima, a maggior ragione dovevano essere fondate nel 2004, quando la Fiat aveva perso un gran numero di dipendenti e la struttura di controllo dei capi appariva sempre piú inutile, come se una città che ha dimezzato la popolazione avesse mantenuto lo stesso numero di vigili urbani. Il primo sfoltimento di capi e figure intermedie lo aveva compiuto Romiti all’inizio degli anni Novanta. All’epoca era crollato un mondo: che il posto potesse essere in bilico per gli operai era ormai un certezza dal 1980, ma che si licenziassero i colletti bianchi, l’esercito di Romiti, le legioni che erano accorse in soccorso dell’amministratore delegato con la Marcia dei Quarantamila, questo era davvero inimmaginabile. Eppure era accaduto. E alcuni si erano addirittura ribellati. Una fredda mattina del 1993 erano usciti in fila per uno e avevano disceso, ordinati come imponeva il Dna, la grande scalinata di marmo di fronte alla palazzina direzionale di Mirafiori. Era il loro modo di far sapere che erano in sciopero. Qualche sindacalista, guardando quella fila dietro le sbarre della porta 5, si era commosso. Dieci anni dopo, la ristrutturazione di Marchionne è meno pubblica ma altrettanto incisiva. Dietro quell’operazione di sfoltimento della parte alta della piramide qualcuno legge, probabilmente sbagliando, la fine del sabaudismo Fiat. Anche in questo caso, la traduzione in scelte aziendali del cambio di abbigliamento dell’amministratore delegato.

In quei mesi è lo stesso Marchionne a confidare ai cronisti: «Ero alla mensa della palazzina di Mirafiori pochi minuti prima dell’orario del pranzo. Quando è stato il momento, si sono aperte le porte ed è entrata una fila di persone che si sono sedute ai tavoli. È chiaro che erano in ordinata attesa dietro la porta da un po’ di tempo. Ma non hanno niente da fare?» Contemporaneamente alla riduzione dei capi intermedi, Marchionne cerca di rendere meno grigi gli stabilimenti. C’è una logica ferrea in questa strategia: ridurre al minimo il numero degli improduttivi e valorizzare chi lavora in linea e dunque produce. Sette anni dopo, nell’intervista al direttore de «la Repubblica», Ezio Mauro [In «la Repubblica», 18 gennaio 2011], l’amministratore delegato del Lingotto spiegherà cosí le scelte di quel periodo:

Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti, e poi quando tornavo a Torino il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose, stia a sentirmi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e a farli vivere in uno stabilimento cosí degradato? In piú, la Fiat era tecnicamente fallita, se il fallimento significa non avere i soldi in cassa per pagare i debiti. Perdevamo 2 milioni al giorno, non so se mi spiego. E ancora all’inizio del 2005 la qualità del lavoro nella grande fabbrica non doveva essere migliorata in modo significativo, se il 70 per cento degli operai di Mirafiori, rispondendo a un questionario della Fim, dichiara che non consiglierebbe al proprio figlio di lavorare in Fiat.

3. «Lucky Sergio»
La Fiat era tecnicamente fallita, dice Marchionne ricordando l’emorragia di denaro che quotidianamente lasciava il Lingotto per effetto della crisi. Eppure proprio quello che era il maggior punto debole dell’azienda diventerà, nei mesi successivi, uno degli elementi di forza nella trattativa del nuovo amministratore delegato con la Gm per sciogliere l’accordo del 2000. Da tempo Detroit mandava segnali precisi: gli Americani non facevano certo salti di gioia alla prospettiva di acquistare la casa di Torino. Comperare una società che ogni giorno perde due milioni di euro è come comperare un debito. I primi, timidi, carotaggi sulle intenzioni degli Americani risalgono al gennaio del 2003, con gli incontri di Fresco e Barberis in America e le voci, mai smentite, sul fatto che Gm sarebbe stata disposta a spendere un miliardo di dollari pur di liberarsi dal capestro del «put». Da allora è trascorso piú di un anno e mezzo ma nell’estate del 2004 la posizione di Detroit non è certo cambiata. Quando Marchionne si rende conto che l’idea di acquistare Fiat spaventa gli Americani, dà fuoco alle polveri.

Il 21 settembre, a Parigi, in occasione del Salone dell’auto, l’amministratore delegato del Lingotto afferma perentorio: «Non ci sarà alcun nuovo rinvio per l’esercizio del “put”». Dichiarazione forte che giunge al termine dello steering committee, l’incontro trimestrale fra i vertici Fiat e quelli di Gm al quale Marchionne partecipa per la prima volta. In sostanza, a partire da gennaio 2005 per la Fiat qualsiasi giorno sarebbe stato buono: avrebbe potuto, in qualsiasi momento, obbligare Gm a rilevare il suo settore automobilistico. Ma Gm aveva preparato da tempo la contromossa. Fin dall’aprile del 2003 i legali di Wagoner avevano espresso dubbi sulla scelta di Fiat di cedere alle banche creditrici il 51 per cento di Fidis, la società del gruppo di Torino che gestisce il credito all’acquisto delle auto. Il master agreement del 2000 prevedeva una sorta di diritto di prelazione di Detroit sulla cessione di asset, come Fidis, che rientravano nel perimetro di Fiat Auto. Questo per evitare di giungere al giorno dell’opzione «put» con una Fiat Auto svuotata delle sue parti piú redditizie. Gm aveva rifiutato di acquistare la maggioranza di Fidis ma non aveva inviato a Torino, pur sollecitata, la conseguente liberatoria alla vendita. Torino, nonostante l’assenza di liberatoria, aveva venduto. Dunque, secondo i legali di Gm, aveva violato gli accordi rendendo non piú valido l’obbligo all’acquisto previsto dal «put». Negli stessi mesi della primavera 2003 si era verificato un secondo fatto che sarebbe finito al centro delle discussioni legali fra Torino e Detroit: l’aumento di capitale da 5 miliardi di euro deciso dagli Agnelli per fare fronte alle perdite della società. Anche in questa occasione Gm aveva fatto subito sapere che non avrebbe immesso altro denaro nelle casse della Fiat, accettando piuttosto di diluire, dimezzandola, la partecipazione azionaria dal 20 al 10 per cento. Nelle settimane precedenti l’annuncio della ricapitalizzazione c’erano stati contatti tra i vertici del Lingotto e le banche.

Una delle ipotesi studiate era quella di offrire a Gm la possibilità di salire al 40 per cento di Fiat Auto partecipando all’aumento di capitale con una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro. In cambio il Lingotto avrebbe rinunciato all’opzione «put» [R. Polato, in «Corriere della sera», 15 febbraio 2003, p. 29]. Ma la freddezza di Gm da un lato e la scelta di non rinunciare all’opzione dell’altro avevano fatto decadere il progetto. A fine settembre del 2004, subito dopo la dichiarazione di Marchionne al Salone di Parigi, la «guerra del put» entra nel vivo. Da Detroit si lascia filtrare l’intenzione, in caso di insistenza della Fiat, di portare la questione di fronte al tribunale competente, quello di New York. I toni si alzano di settimana in settimana. Dall’America fonti Gm citate dal Ft fanno trapelare che se il colosso di Detroit fosse costretto ad accollarsi il 100 per cento di Fiat Auto, potrebbe scegliere di non investire negli stabilimenti italiani, provocando cosí il fallimento e la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. È con queste premesse che Marchionne arriva all’appuntamento cruciale dello steering committee del 14 dicembre. L’attesa è alta. Nella hall dell’Hotel Renaissance di Zurigo stazionano giornalisti e troupe televisive. L’incontro dovrebbe svolgersi al primo piano, nella sala Kyiburg.

Il 14 mattina Marchionne si fa precedere da un’intervista al «Financial Times»: «Le pretese di Gm, per dirlo senza giri di parole, non hanno fondamento». E spiega che la casa americana sbaglierebbe a lasciar andare in fallimento gli stabilimenti di Fiat Auto perché essendo fabbriche «altamente efficienti» potrebbero essere proficuamente utilizzate per realizzare auto anche per altri marchi dell’impero Gm. È evidente che il braccio di ferro è solo all’inizio. Siccome il clima è rovente, Gm chiede e ottiene di spostare la sede dell’incontro per rompere l’assedio dei giornalisti. Di nascosto, utilizzando uscite secondarie, le delegazioni lasciano il Renaissance e raggiungono una località segreta sul lago di Costanza. A tarda notte i portavoce annunciano che l’incontro si è svolto e che ciascuno dei due gruppi diramerà un comunicato nelle ore successive. Come era prevedibile i comunicati confermano che c’è rottura fra Torino e Detroit.

Il 16 dicembre Gm annuncia l’avvio della mediation, la fase, prevista dall’accordo del 2000, in cui le due parti tentano una soluzione concordata alla controversia. La mediation durerà fino al 24 gennaio, data oltre la quale la Fiat può esercitare l’opzione «put» costringendo Gm ad acquistare. Lo scontro è molto duro e ci sono poche settimane per trovare una soluzione. Invano si attende un nuovo incontro tra Wagoner e Marchionne all’inizio di gennaio, in occasione del Salone dell’auto di Detroit. I due manager si ritrovano effettivamente al tradizionale lunch tra i costruttori ma non partecipano a riunioni riservate. È il segnale, dicono gli osservatori, che i consulenti e gli avvocati stanno ancora mettendo a punto le strategie in vista del rush finale. Il 13 gennaio Detroit drammatizza e annuncia che il valore della sua partecipazione in Fiat Auto, ormai scesa al 10 per cento per effetto della diluizione seguita all’aumento di capitale non sottoscritto, passa nel bilancio da 220 milioni di dollari a zero. Al momento dell’accordo, nel 2000, il 20 per cento di Fiat Auto era stato valutato 2,4 miliardi di dollari.

Nella battaglia legale sotterranea che si gioca nei primi giorni del 2005 tutto finisce sul tavolo della trattativa, anche le joint venture industriali nel campo dei motori, delle piattaforme e degli acquisti. Gm continua a sostenere che gli Italiani hanno cambiato le carte in tavola rispetto ai termini dell’accordo del 2000. Il Lingotto risponde che l’obiezione piú forte di Gm, la vendita del 51 per cento di Fidis senza la liberatoria di Detroit, è in realtà infondata perché Fiat ha semplicemente parcheggiato alle banche quella quota e, in base a un’opzione call che può esercitare due volte all’anno (e che proprio il 28 dicembre viene prorogata fino al 2008), può riprendersela in qualsiasi momento. Dunque se Gm si prenderà Fiat Auto avrà anche la quota di Fidis. Quanto all’aumento di capitale, dicono gli uomini di Torino, era imposto dalla legge italiana. Inoltre gli avvocati del Lingotto mettono sul piatto il danno che deriverebbe a Torino per il fatto di aver evitato di cercare alleanze industriali alternative a Gm, proprio perché gli Americani avrebbero esercitato l’opzione «put». Il 24 gennaio arriva senza che il braccio di ferro si sia concluso. Le due parti concordano la proroga di una ulteriore settimana, chiesta da Gm. Ma il 2 febbraio si arriva alla rottura ufficiale: il divorzio fra Torino e Detroit sarà deciso dal tribunale di New York a meno che, in extremis e fuori tempo massimo, le due parti non trovino un accordo.

I comunicati di quel giorno lasciano pochi margini di trattativa. La Fiat annuncia che «dal nostro punto di vista la put option è valida, esercitabile nei termini previsti dall’accordo, ed è un asset importante per il gruppo». Di parere opposto Gm. Il portavoce di Detroit, Jerry Dubrowski, afferma che «Fiat ha violato il master agreement con l’aumento di capitale di Fiat Auto e la cessione delle attività finanziarie di Fidis». Manca a questo punto un solo mese al successivo steering committee in programma il 3 marzo a Ginevra, in occasione del Salone dell’auto. Ma Marchionne e Wagoner si incontreranno prima e a Ginevra il divorzio sarà ormai del tutto consumato.

Il fine settimana della verità comincia venerdí 11 febbraio. Marchionne telefona a Wagoner e vola a New York. La trattativa si svolge nel sotterraneo di un palazzo di Manhattan, non lontano dalla sede di Sullivan & Cromwell in Broad Street, lo studio legale che aveva ospitato tutta la fase iniziale della vertenza. I pochi testimoni racconteranno di ore e ore di riunioni, di fumatori, come Marchionne, che si allontanano periodicamente dal tavolo, di una tensione palpabile. Lo racconta lo stesso amministratore delegato al direttore de «La Stampa», Marcello Sorgi, nell’intervista che segue la conclusione della trattativa: «A un certo punto, un’ora prima della conclusione, mi sono alzato dal tavolo e la trattativa si è interrotta. In quel momento ho valutato che avevamo metà delle possibilità di riprenderla e metà di litigare»[4 Intervista di Marcello Sorgi a Sergio Marchionne, in «La Stampa», 14 febbraio 2005]. A mezzanotte e mezzo della notte tra sabato 12 e domenica 13 febbraio, nel sotterraneo di Manhattan la trattativa si chiude: Wagoner accetta di versare alla Fiat 2 miliardi di dollari (1,55 miliardi di euro) pur di non sentir mai piú parlare dell’opzione «put» e dell’obbligo di acquisto di Fiat Auto. Tutte le joint venture previste dall’accordo del 2000 sono sciolte. In Italia sono le 6,30. Alle 7,30 Marchionne parte con un volo privato dal Jfk per arrivare a Torino in tempo per il Cda straordinario convocato al Lingotto per ratificare l’accordo. Alla 16 della domenica, in una sala all’ultimo piano della palazzina direzionale, Luca di Montezemolo apre la conferenza stampa annunciando: «Da oggi la Fiat è tutta italiana». Marchionne, distrutto, riassume brevemente i termini dell’accordo. In quelle ore si parla di «divorzio consensuale»: le due aziende sciolgono le joint venture ma continueranno a mantenere la collaborazione industriale, almeno per un certo periodo. Wagoner definisce Marchionne «un negoziatore duro ma leale». Sei anni dopo quella vicenda, incontrando in un ristorante di Troy, vicino a Detroit, uno dei principali collaboratori del manager del Lingotto, Wagoner si informa: «Come va con Chrysler?» «Quest’anno stiamo tornando all’utile». «Ah, lucky Sergio».

foto: AP Photo