Il Brasile non va più così forte

Dopo quelle di India e Cina, anche l'economia brasiliana rallenta a causa di un'industria debole, infrastrutture assenti e la solita burocrazia bizantina

di Davide Maria De Luca

Sembra proprio che non saranno i paesi emergenti a salvare le economie ricche dalla recessione, come era avvenuto con la crisi finanziaria del 2008. Dopo India e Cina è arrivato il turno del Brasile nel deludere le speranze di una crescita travolgente che compensi la recessione dei paesi ricchi: le ultime stime parlano di un aumento del PIL brasiliano soltanto del’1,6%.

Questa stima è stata ottenuta annualizzando (cioè, con dei calcoli statistici, estendendolo a tutto l’anno) il dato, uscito questa settimana, sulla crescita nel secondo trimestre dell’anno: più 0,4%. Un miglioramento rispetto al primo trimestre, quando la crescita era stata appena dello 0,1%, ma comunque una delle crescite più basse dei paesi in via di sviluppo e più bassa addirittura dell’1,9% previsto per l’economia degli Stati Uniti.

Se questa stima di crescita all’1,6% sarà confermata allora il 2012 farà seguito ad un deludente 2011, che si chiuse con una crescita del 2,7%. Ad un europeo non sembrano oggi cifre da buttare via, ma bisogna ricordare che nel 2010 il Brasile era stato uno di quei paesi emergenti che, con una crescita del 7,5%, aveva dato la scossa alla crescita mondiale, aiutando anche i paesi più ricchi a superare i danni della crisi finanziaria del 2008. Una frenata così brusca è il sintomo che nell’economia brasiliana c’è qualcosa che non va.

Per capire dove si trovi l’intoppo nel meccanismo economico brasiliano bisogna fare un passo indietro, all’epoca in cui il paese era una delle più dinamiche tra le economie emergenti. Nel 2010 e negli anni precedenti il Brasile aveva cavalcato il boom del costo delle materie prime (in gergo chiamate commodities), in particolare quelle alimentari, di cui il Brasile è un grande esportatore. Quest’aumento dei prezzi dipendeva in sostanza dall’aumento della domanda cinese di materie prime. Quando questa domanda, nell’ultimo anno, è andata diminuendo tutti i paesi esportatori di commodities (Brasile compreso) ne hanno risentito.

Quando ancora il paese era trainato dalla spirale dell’aumento dei prezzi delle materie e le casse dello stato erano piene, prima i governi di Luiz Lula da Silva e ora di Dilma Roussef, hanno varato ampi piani di incentivi al consumo sotto forma di tagli di tasse alle persone e di aumenti salariali (in particolare dei dipendenti pubblici). Aumentare il potere d’acquisto dei brasiliani ha permesso loro di acquistare beni e servizi che prima non potevano permettersi e questi beni spesso sono stati prodotti in Brasile. I tagli e gli incentivi hanno così contribuito alla crescita, ma sembra che oggi abbiano esaurito la loro spinta.

L’altra faccia della medaglia è che mentre la domanda interna veniva rinforzata, nessun piano di investimenti o di riforme è stato messo in cantiere per aiutare l’industria, che infatti è il settore dell’economia brasiliana che al momento soffre di più. Manifattura ed export hanno sempre avuto difficoltà a svilupparsi in Brasile, ma è stato facile per i governi brasiliani ignorare gli ostacoli che ne impedivano lo sviluppo ed evitare le riforme impopolari per rimuoverli, finché l’economia era trainata dalle materie prime e dalla domanda interna. Adesso invece con un economia in stagnazione Dilma Roussef è costretta a guardare i limiti del modello di sviluppo seguito finora.

Il problema principale è che, rispetto al resto del continente (e rispetto a moltissime altre economie in via di sviluppo), produrre in Brasile costa ancora molto. Il motivo non è tanto legato al costo del lavoro (cioè agli stipendi), quanto alle tasse sulle imprese, che sono le più alte del continente, a una gravissima mancanza di infrastrutture, che rende i trasporti costosi e lenti, e una burocrazia bizantina e spesso inefficiente.

Riformare la burocrazia inefficiente e tagliare le tasse non sono operazioni facili: da un lato si perde consenso elettorale (gli impiegati pubblici sono già piuttosto irrequieti), dall’altro si aprono buchi nel bilancio. La strategia scelta dal presidente Roussef è quindi di incidere sulle infrastrutture e ad agosto il governo ha annunciato un piano di costruzioni di porti, strade e ferrovie da 66 miliardi di dollari. Si tratta di concessioni, in cui i privati, con un aiuto finanziario dallo stato, costruiranno le infrastrutture che poi gestiranno insieme allo stato secondo varie formule.

Il governo brasiliano ha fatto sapere che negli ultimi due quarti dell’anno, quando questo piano entrerà nel vivo, si vedrà un balzo nella crescita del paese. Ma è difficile prevedere grandi risultati già nel 2012: le infrastrutture non saranno pronte per anni e forse, scrive un editoriale del Financial Times, nemmeno per i mondiali del 2014.