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  • Mercoledì 25 luglio 2012

Gli Stati Uniti e il “Taxmageddon”

Chiunque sarà il prossimo presidente, il suo primo compito è noto: evitare che entrino in vigore i mostruosi tagli che scatteranno automaticamente il primo gennaio 2013

di Francesco Costa – @francescocosta

The White House is pictured during a snowfall in Washington, DC, on January 9, 2012. AFP Photo/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)
The White House is pictured during a snowfall in Washington, DC, on January 9, 2012. AFP Photo/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)

Chiunque sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, se di nuovo Barack Obama o il repubblicano Mitt Romney, è già noto quale sarà la prima questione che dovrà affrontare. Il primo gennaio del 2013, infatti, a un mese dalle elezioni e a 20 giorni dall’insediamento ufficiale del nuovo presidente, negli Stati Uniti scadranno una serie di esenzioni fiscali di grande importanza ed entreranno in vigore automaticamente tagli alla spesa per un totale di 607 miliardi di dollari solo nel 2013. La famiglia media americana dall’oggi al domani si troverà a pagare oltre 3.000 dollari di tasse in più (alcuni collocano questa stima ancora più in alto). L’ufficio per il budget del Congresso ha calcolato che l’evento con ogni probabilità farebbe finire gli Stati Uniti nuovamente in recessione. I media americani hanno chiamato questa situazione con l’eloquente neologismo di “Taxmageddon”.

Parte delle esenzioni fiscali in scadenza sono quelle approvate da George W. Bush a favore delle fasce più ricche della popolazione. Contemporaneamente, però, scadranno tutta una serie di esenzioni fiscali approvate dall’amministrazione Obama col pacchetto di stimolo all’economia di inizio 2009, dirette soprattutto alla classe media e ai disoccupati.

Un’altra serie di tagli scatterà automaticamente in ragione dell’accordo raggiunto faticosamente la scorsa estate da democratici e repubblicani, quando si trattò di alzare il tetto fissato dalla legge per le dimensioni del debito pubblico americano, concedendo così al governo di continuare a prendere denaro in prestito. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che il Congresso avrebbe dovuto approvare tagli alla spesa per 98 miliardi entro la fine del 2012, altrimenti sarebbero entrati in vigore dei tagli automatici e lineari su due capitoli di spesa: welfare e istruzione, cari ai democratici, e l’esercito, caro ai repubblicani. A tale scopo si insediò un cosiddetto “super comitato” – composto da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani – che non riuscì a trovare un compromesso.

Questa è una delle ragioni della minaccia del “Taxmageddon”: la Camera (a maggioranza repubblicana) e il Senato (a maggioranza democratica) non riescono a trovare un accordo su quasi nessuna questione cruciale dalle scorse elezioni di metà mandato, soprattutto a causa dell’atteggiamento oltranzista dei repubblicani. “Negli ultimi tre anni”, scrive The Week, “il Congresso e la Casa Bianca hanno adottato ripetutamente misure temporanee per evitare veri sacrifici finanziari o politici”. L’altra ragione, spiega il New York Times, è che Washington “kicked the can down the road“. Hanno menato il can per l’aia, diremmo in Italia, rimandando decisioni definitive. I tagli fiscali di Bush, per esempio, che hanno contribuito a far esplodere il deficit statunitense negli ultimi anni, avevano deliberatamente carattere temporaneo (rinnovabile), così che le loro pesanti conseguenze finanziarie non incidessero sul bilancio nel lungo periodo.

Il “Taxmageddon” potrà essere evitato se il Congresso degli Stati Uniti, prima del primo gennaio 2013, riuscirà a legiferare sulla questione. Cosa molto improbabile, per non dire impossibile: i repubblicani sono assolutamente contrari a ogni aumento delle tasse (molti hanno firmato una specie di solenne promessa di partito sul tema), i democratici sono assolutamente contrari a tagliare in settori sensibili come i programmi sanitari. Le elezioni presidenziali del prossimo 6 novembre sono viste da tutti come il momento risolutivo, quindi, che sposterà gli equilibri da una parte o dall’altra.

Il presidente uscente, Barack Obama, ha promesso che in caso di rielezione lascerà scadere le esenzioni per i ricchi, promuoverà un aumento delle tasse sull’1 per cento più ricco della popolazione – la cosiddetta “Buffett rule” – e userà quei soldi per mantenere alcune esenzioni dirette alla classe media ed evitare tagli lineari. La speranza dei democratici è che, in caso di rielezione di Obama, almeno parte dei repubblicani del Congresso – dovessero conservare la maggioranza alla Camera, come probabile – abbandoni l’intransigenza di questi anni e decida di trovare un compromesso con i democratici.

Anche i repubblicani dicono di non voler permettere il “Taxmageddon”. Se il prossimo presidente degli Stati Uniti dovesse essere Mitt Romney, i tagli fiscali di Bush ai ricchi verranno probabilmente ulteriormente prorogati – ed estesi retroattivamente, a partire dal primo gennaio 2013 – e i tagli alla spesa militare verrebbero probabilmente annullati. Le risorse per frenare il deficit arriverebbero dal taglio dei programmi di welfare e della spesa sanitaria ma probabilmente non in misura sufficiente, scrive il New York Times. “La storia recente – da Reagan a Bush – suggerisce che i repubblicani non riusciranno a tagliare abbastanza la spesa da compensare i tagli alle tasse, finendo quindi per accettare un aumento del debito”.

foto: JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images