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  • Lunedì 31 gennaio 2011

Sei domande sull’Egitto

Tutto quello che dovete sapere se siete stati una settimana su Marte

di Roberto Roccu

An Egyptian army Captain identified as Ihab Fathi holds the national flag while being carried by demonstrators during a protest in Tahrir Square in Cairo on January 31, 2011, on the seventh day of mass protests calling for the removal of President Hosni Mubarak. AFP PHOTO/MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)
An Egyptian army Captain identified as Ihab Fathi holds the national flag while being carried by demonstrators during a protest in Tahrir Square in Cairo on January 31, 2011, on the seventh day of mass protests calling for the removal of President Hosni Mubarak. AFP PHOTO/MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)

Da martedì scorso un’ondata di proteste popolari senza precedenti ha scosso l’Egitto, mettendo Mubarak di fronte alla sfida più difficile dei suoi ormai quasi trent’anni al potere. Dopo l’escalation del “venerdì della rabbia” (gum’a al-gudb) e di ieri, è il caso di provare a mettere assieme i pezzi di un puzzle intricato, per evitare di dare giudizi affrettati o male informati.

Chi è che sfida il regime?
A scendere in piazza non è stata solo la generazione di Facebook e dei social network, come ha osservato sul Guardian Jack Shenker. Piuttosto, per la prima volta dai funerali di Gamal Abdel Nasser nel 1970, a scendere per le strade di Cairo, Alessandria, Suez e anche altre città (seppure in misura minore), sono state tutte le principali componenti della società egiziana, uomini e donne, disoccupati ed insegnanti, studenti e liberi professionisti. È importante sottolineare che il malcontento nei confronti del regime è riuscito persino a far mettere da parte le divisioni confessionali tra copti e musulmani, che pure erano state acuite dall’attentato della vigilia di Capodanno ad Alessandria.

Cosa chiedono?
Per capire cosa motivi le rivolte è sempre importante sapere cosa c’è dietro le parole d’ordine del movimento di protesta. Nel caso egiziano, le più pregnanti sono:

– Horreya (libertà). Dalla cacciata del re Farouk per mano dei Liberi Ufficiali nel 1952, gli egiziani non hanno di fatto più goduto di gran parte delle libertà – sostanziali per pochi e solo formali per molti – che erano garantite dal regime monarchico. Con Mubarak peraltro la situazione in questo senso è peggiorata sensibilmente, visto che poco tempo dopo la sua ascesa alla presidenza fu imposto lo stato di emergenza che di proroga in proroga è in vigore ancora oggi. Non è un caso che il simbolo della protesta sia Midan Tahrir, letteralmente Piazza della Liberazione, originariamente dalla monarchia. Liberazione che non si è mai realizzata appieno nella forma repubblicana che i manifestanti difendono.

– ‘Adala igtimaya (giustizia sociale). In seguito a due ondate di riforme economiche, dal 1990 a oggi l’economia egiziana ha subito dei cambiamenti sostanziali. Nel 1998 le privatizzazioni ottennero addirittura il quarto posto nella classifica delle riforme più riuscite stilata dal Fondo Monetario Internazionale; in tutti gli anni dal 2005 al 2008 l’Egitto figurava nella top ten dei paesi più riformisti in ambito economico contenuta nel Doing Business Report della Banca Mondiale. E in effetti prima della crisi finanziaria globale l’economia egiziana nel suo complesso viaggiava finalmente spedita come un treno, con il PIL che cresceva a una media del 6 per cento l’anno. Eppure allo stesso tempo la disoccupazione (al-batala), altro termine molto presente negli slogan e negli striscioni di questi giorni), è aumentata, così come è aumentata sensibilmente la percentuale della popolazione al di sotto della soglia di povertà. Colpa della corruzione (al-fasad) ma anche di un governo – quello diretto da Ahmed Nazif e dimissionato pochi giorni fa – ancorato su politiche liberiste imperniate sull’idea che i benefici economici delle riforme, dopo aver toccato chi aveva già (costruttori, esercito e banchieri in primis) si sarebbero diffusi per magia, senza alcun intervento pubblico, negli strati più poveri della società egiziana. In realtà, le riforme hanno finito per mettere in ginocchio persino il ceto medio, con sempre più persone – impiegati pubblici, operai, professori – costretti ad arrotondare con un secondo lavoro, spesso al volante di uno degli innumerevoli taxi abusivi che percorrono le strade perennemente intasate del Cairo e delle altre grandi città del paese.

– Dimuqratya (democrazia). Perché il trucco di Mubarak, ereditato da Sadat, stava qui. Il Partito Nazionale Democratico da un lato. E le elezioni a scadenza regolare dall’altro. Abbastanza da costituire un argomento per quanti volessero sostenere sostenere che in Egitto si stava meglio che nel resto del mondo arabo. Come se bastassero la dicitura “democratico” nel nome di un partito e una procedura riconosciuta a fare di un paese una democrazia, per quanto limitata. Come se ci si potesse dimenticare che le elezioni erano sistematicamente precedute e seguite da persecuzioni e sentenze e torture nei confronti di qualsiasi avversario politico che non dimostrasse mansuetudine nei confronti del regime e del suo burattinaio. Oggi, scandendo questo termine per le strade, gli egiziani chiedono la fine di questa beffa, e l’instaurazione di una democrazia sostanziale, realmente plurale, competitiva e rappresentativa.

Qual è la situazione adesso per le strade?
Stando ad AFP, il conto delle vittime dall’inizio delle proteste è arrivato a 135 manifestanti e 12 poliziotti. Gli scontri tra polizia e manifestanti hanno anche provocato almeno duemila feriti. L’esercito è sceso per strada solamente giovedì pomeriggio, nell’intenzione di far rispettare il coprifuoco imposto dal governo, ma ben presto è rimasto “intrappolato” nelle manifestazioni di affetto e solidarietà da parte dei manifestanti. A partire da giovedì, la polizia ha abbandonato intere aree del Cairo, che sono state prese d’assalto da bande armate che hanno fatto irruzione in supermercati, hotel e case in alcuni distretti residenziali quali Maadi e Mohandeseen. Avvisaglie della presenza di vandali si erano avute già nella notte precedente, quando alcuni malviventi erano riusciti a calarsi attraverso il tetto del Museo Egizio, distruggendo due mummie e alcuni monili. Per arginare questi rischi, nella notte tra giovedì e venerdì l’esercito e i manifestanti hanno collaborato per garantire la sicurezza di varie aree della capitale. Venerdì mattina l’esercito aveva ricevuto ordine di non fare più sconti ai manifestanti: pochissimi soldati hanno obbedito, mentre la maggioranza si è frapposta tra la polizia e i manifestanti nel tentativo di sedare le violenze.


Qual è la situazione adesso nell’opposizione organizzata?
I Fratelli Musulmani, principale preoccupazione di gran parte degli osservatori occidentali, hanno finora mantenuto un basso profilo. Si è trattato di una sagace scelta strategica, che ha di fatto impedito al regime di usare il tanto proficuo alibi della deriva islamista per sedare la rivolta nel sangue. In un’intervista ad Al Jazeera, uno dei principali esponenti dei Fratelli Musulmani ha anche affermato che in caso di elezioni presidenziali il loro movimento non ha nessuna intenzione di presentare un candidato, e che allo stato attuale l’unico loro interesse è che Mubarak lasci il potere e si arrive ad elezioni democratiche realmente rappresentative. Ieri i Fratelli Musulmani hanno bene accolto Mohamed ElBaradei e gli hanno garantito il loro sostegno, se questo riuscirà a coalizzare attorno a sé tutte le forze di opposizione.

Sul fronte laico, gran parte dell’attenzione si è concentrata sulla figura di Mohamed ElBaradei, rientrato in Egitto giusto in tempo per il “venerdì della rabbia”. Gli è stato impedito di partecipare alle manifestazioni, ma attraverso due interviste è riuscito un’altra volta a catalizzare le attenzioni dell’opinione pubblica internazionale. Ieri è arrivato in piazza e ha pronunciato un discorso ai manifestanti, ma non dobbiamo dimenticare che a causa dell’isolamento di ElBaradei e di Al Jazeera in Egitto pochissimi hanno sentito direttamente la sua voce. Il blocco di internet ha ridotto a due i canali di informazione per i manifestanti: i media gestiti dal regime e il passaparola delle telefonate.

Resta quindi il dubbio di quale sia l’effettiva presa di ElBaradei su un movimento che appare oggi privo di una leadership riconosciuta. E mentre alcuni osservatori ritengono che la protesta rischi di perdere forza se non trova una guida in grado di rappresentarla in maniera credibile, sia a livello interno che sul piano internazionale, altri rimarcano come in questa fase l’assenza di un leader possa essere addirittura un vantaggio, aiutando gli egiziani a liberarsi dal complesso del “salvatore della patria” che li ha fatti cadere nella passività degli ultimi decenni.

Qual è la situazione adesso nel regime?
Dopo il deludente di scorso di venerdì notte, Mubarak ha accettato le dimissioni del governo uscente e poco dopo ha nominato per la prima volta da quando è al potere un vicepresidente, Omar Suleiman. Poi è arrivata anche la nomina del nuovo primo ministro, Ahmed Shafiq. Entrambi condividono con il presidente sia il background militare che un’amicizia di lunga data. E infatti sono ampiamente percepiti come uomini del regime anche da parte dei manifestanti, per nulla placati dalla loro nomina. L’unico messaggio positivo per loro è che finalmente esiste un successore designato, e non è l’impopolarissimo Gamal, secondogenito di Mubarak. Oggi il presidente egiziano ha nominato Mahmoud Wagdi nuovo ministro dell’interno.

È chiaro che la nomina di Suleiman sia un tentativo da parte di Mubarak di accontentare gli alleati sullo scacchiere internazionale, considerata la stima di cui Suleiman gode sia a Tel Aviv che a Washington. Una strizzata d’occhio a chi ha contribuito a consolidare il suo potere in questi trent’anni piuttosto che agli egiziani che ne chiedono le dimissioni con sempre maggiore insistenza e determinazione.

Cosa può accadere?
Il paese è ancora bloccato, e negli ultimi giorni il numero di manifestanti in piazza è aumentato, invece che diminuire. Per domani è attesa la grande manifestazione da un milione di persone, negli auspici di chi l’ha convocata. Tre appaiono gli scenari possibili, anche se la situazione è talmente incerta ed i fattori così numerosi che qualsiasi previsione potrebbe andare a farsi benedire nel giro di un paio d’ore.


Mubarak rimane al potere. Questo potrebbe accadere solo se si verificassero tre condizioni. Primo, Mubarak decide di non candidarsi alle elezioni di settembre e avvia delle significative riforme economiche, politiche e sociali. Secondo, il suo piano riceve un forte sostegno da parte degli alleati tradizionali in ambito internazionale. Terzo, l’esercito reprime la rivolta, seguendo quella che Brian Whitaker definisce “opzione Tienanmen”. Nessuna delle tre condizioni appare vicina a realizzarsi, perché Mubarak potrebbe anche decidere di non ricandidarsi, ma difficilmente avrebbe qualsiasi credibilità nel portare avanti le riforme necessarie; perché eccetto Israele, che pure ha un peso specifico enorme, e forse l’Italia, il cui peso specifico si aggira però intorno allo zero, nessun paese ha un grosso interesse ad alienarsi le simpatie del popolo egiziano, sostenendo Mubarak i cui giorni, per ragioni anagrafiche, mediche e ormai anche politiche, paiono sempre più contati; e infine perché difficilmente l’esercito sparerà sui civili che li accolgono festanti come se fossero loro i veri liberatori del paese. Questa ipotesi è quindi, allo stato attuale delle cose, la meno probabile.

Transizione militare. Le proteste continuano al punto che Mubarak è costretto a lasciare il paese, un po’ come successo con Ben Ali in Tunisia. Suleiman diventa presidente, e attraverso un governo in cui i militari hanno un ruolo determinante, organizza le elezioni di settembre, cercando di costruire una candidatura forte intorno a un altro militare, possibilmente appartenente alla generazione successiva a quella di Mubarak e Suleiman. È quello che Ragui Assaad ha definito “un regime militare all’interno del quadro costituzionale”. La cacciata di Mubarak in una prima fase placherebbe gli animi della folla, che quando si riaccenderanno troveranno un esercito motivato dalla ritrovata centralità nel nuovo regime. Questa ipotesi dovrebbe riuscire a garantire la stabilità regionale, ma sarebbe un tradimento delle istanze espresse in tutti questi giorni. Che potrebbero trovare sfogo in una radicalizzazione, non necessariamente di matrice islamista.

Governo di unità nazionale immediato. Mubarak scappa, ma i manifestanti non mollano l’osso e continuano a manifestare affinché l’esercito si concentri sul compito che gli dovrebbe appartenere: il controllo dell’ordine pubblico, e non anche dell’ordine politico. Suleiman rimane presidente ad interim ma nomina un nuovo governo non militare, in cui tutte le principali componenti della rivolta sono coinvolte, che avrà il compito di rimuovere lo stato di emergenza, approvare delle modifiche alla costituzione, sviluppare sostanziali riforme economiche e sociali, e infine preparare sia nuove elezioni parlamentari che presidenziali. Tanta carne al fuoco, troppa forse. E questo è uno dei problemi posti da questa prospettiva: un governo eterogeneo con tante decisioni cruciali da prendere in poco tempo. Un altro é quello solito, che ha impedito di pensare a un’opzione che non fosse Mubarak negli ultimi trent’anni: vere elezioni significano incertezza nel risultato, e quindi anche incertezza nella politica estera che verrà, con ripercussioni regionali quali il panico israeliano, nonché il rischio di emulazione in altri paesi dell’area. Ma oggi come non mai gli egiziani sono determinati a decidere del loro destino. E sarebbe anche ora.

Per chiudere, come un mio amico al Cairo mi ha confermato, la sensazione più diffusa tra I manifestanti è che Mubarak sia un “dead man walking”. Un uomo morto che cammina. Il vero dubbio è quanto riuscirà ancora a camminare. E quanto chi gli succederà sarà in grado di dare maggiore spazio alle rivendicazioni e alle richieste delle centinaia di migliaia di egiziani scesi in piazza in questi giorni.

foto: MARCO LONGARI/AFP/Getty Images