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  • Domenica 6 giugno 2010

Le porga la chiomen

Qualcuno dei calciatori non canta l'inno prima della partita, e la cosa sta facendo discutere

Germany's players listen to the Chinese national anthem moments before a friendly soccer match between Germany and China at Shanghai stadium in Shanghai, China, Friday, May 29, 2009. The teams tied 1-1. (AP Photo/ Elizabeth Dalziel)
Germany's players listen to the Chinese national anthem moments before a friendly soccer match between Germany and China at Shanghai stadium in Shanghai, China, Friday, May 29, 2009. The teams tied 1-1. (AP Photo/ Elizabeth Dalziel)

In Germania si discute della nazionale di calcio, a pochi giorni dall’inizio dei mondiali in Sudafrica: non si tratta però di un problema tecnico, dell’infortunio al capitano Ballack o delle prestazioni della squadra. Si tratta dell’inno nazionale, e di come alcuni giocatori tedeschi si rifiutino di cantarlo prima delle partite.

Ancora a parlare dell’inno, direte? Noi abbiamo avuto la stessa polemica tipo dieci anni fa. In realtà le cose per la Germania sono un po’ più complicate, racconta il Wall Street Journal, visto che parliamo di una delle nazionali più multietniche del mondo. E i calciatori che non cantano l’inno nazionale sono proprio quelli le cui origini non sono tedesche.

Anche questo è un tema di cui si è discusso in Italia, quando è sembrato che Marcello Lippi potesse convocare tra gli azzurri giocatori come Amauri, Thiago Motta o Taddei, di origini brasiliane e nazionalità italiana acquisita. In molti manifestarono fastidio, altri consigliarono a Lippi di lasciar perdere, dimostrando che l’ormai stabile presenza dell’italoargentino Camoranesi tra gli azzurri non aveva ancora contribuito a sciogliere la questione una volta per tutte. In Germania il problema sembrava non esserci. In primo luogo per la maggiore familiarità dei tedeschi con i cittadini naturalizzati, specie quelli provenienti dalla gigantesca comunità turca. In secondo luogo perché dalla fine della Seconda guerra mondiale i tedeschi hanno di fatto perso la loro passione patriottica e tutto il patrimonio di riti e gestualità a questa collegate, la cui ostentazione ricordava loro un’epoca da dimenticare.

Ora entrambe le cose stanno cambiando: da una parte i tedeschi stanno recuperando confidenza con cose come l’inno nazionale e la bandiera, dall’altra la loro composizione etnica si fa talmente frastagliata e variegata da rendere la vicenda più spinosa di quanto fosse nel recente passato. Così, quando Franz Beckenbauer si è lamentato del comportamento dei calciatori – “Non può essere che i tifosi sugli spalti cantino e chi sta in campo no” – il tema è stato raccolto dall’opinione pubblica e dalla stampa.

La Bild, il quotidiano tedesco più diffuso, noto per le sue posizioni populiste e conservatrici, ha pubblicato i nomi dei calciatori che non cantano l’inno – nomi per lo più stranieri. Poi ha allegato una cartolina con le parole dell’inno, suggerendo che i calciatori possono ritagliarla e portarla con sé in campo.

Oggi in Germania il 18 per cento dei cittadini ha almeno un parente che è nato all’estero. Il flusso crescente di immigrazione ha avuto conseguenze anche nel calcio: sui ventitre giocatori della nazionale tedesca, undici sono nati all’estero o hanno origini straniere. E la federazione calcistica tedesca ha incentivato questo fenomeno.

La federazione calcistica tedesca ha lavorato per anni nella ricerca di giovani talenti tra le minoranze etniche, e ha prodotto diverse campagne di comunicazione per promuovere i suoi sforzi e mettere i nativi tedeschi a proprio agio con le novità che sarebbero inevitabilmente arrivate.

La Germania lo ha fatto per virtù, ma anche per necessità: fino a qualche anno fa molti dei suoi talenti migliori le erano di fatto strappati dalle altre nazioni, in particolare dalla Turchia. Nel 2009 fece quindi molto rumore il caso del centrocampista Mesut Özil, nato in Germania da genitori turchi, e della sua decisione di optare per la nazionale tedesca: i calciatori con doppio passaporto, infatti, possono giocare per una sola squadra nazionale nell’arco della loro carriera, e quindi alla prima convocazione – dall’una o dall’altra squadra – sono costretti a scegliere.

Giovedì sera, durante l’amichevole contro la Bosnia Erzegovina, Özil non cantava. Non cantava Sami Khedira, madre tedesca e padre tunisino; non cantava Piotr Trochowski, nato in Polonia ma residente in Germania da quando aveva cinque anni. Di solito non canta nemmeno Dennis Aogo, padre nigeriano e madre tedesca. Miroslav Klose invece, figlio di tedeschi ma nato in Polonia, canta l’inno spesso e volentieri.

Cantare l’inno ovviamente non è obbligatorio: la federazione calcistica ha detto che se i calciatori lo cantano loro sono contenti, se no pazienza. E si torna al discorso del rapporto della Germania col patriottismo in generale e con l’inno in particolare: dopo la Seconda guerra mondiale la Germania Ovest discusse a lungo della stessa opportunità di avere un inno, oltre che di cantarlo. Si decise di cantare solo la terza strofa, per evitare un “Deutschland über alles” che poteva creare equivoci. Insomma, il problema dei calciatori che non cantano l’inno non si sarebbe mai potuto porre negli anni Settanta: non lo cantava nessuno. I mondiali del 2006 hanno cambiato un po’ la situazione. I tedeschi hanno esposto le bandiere ai balconi, si sono dipinti la faccia dei colori nazionali e hanno scoperto che questo li rendeva più vicini e comuni agli altri tifosi, e non più lontani.

Peter Schmidt è un tifoso accanito di calcio ed è tornato recentemente in Germania dopo un anno di studio negli Stati Uniti, dove la tradizione di cantare l’inno nazionale prima degli eventi sportivi è molto diffusa e popolare. “I tedeschi”, dice, “dovrebbero imparare un po’ dagli americani”.