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  • Mercoledì 12 maggio 2010

Abbiamo spezzato le reni alla Grecia

No, non c'è una guerra ad Atene, anche se ci sono stati i morti e altri scontri sono in bilancio nelle prossime settimane, nei prossimi mesi

di Filippomaria Pontani

«Atene. L’incalzare degli eventi induce sguardi e pensieri sgomenti nell’opinione pubblica. Il ministro dichiara: “Non c’è tempo, lo si è visto…” […Raccogli ciclamini… aghi di pino… i gigli dalla sabbia… aghi di pino… donna…] “…sovrasta con le forze immani. E la guerra…” cambiavalute d’anime».

Così, con questo balletto alla radio fra un inquietante notiziario e l’interferenza di una fiorita canzonetta di primavera, si chiude una delle più belle poesie del Novecento greco, “Elpènore il sensuale”, scritta nel 1946 da Giorgio Seferis. Non molti di voi avranno notato che si tratta di endecasillabi rimati, ma i più saranno stati colpiti – oltre che dall’interferenza dei ciclamini che coprono qualche parola del ministro – dall’ultimo verso.
C’è una guerra ad Atene, oggi?

No, non c’è una guerra ad Atene, anche se ci sono stati i morti e altri scontri sono in bilancio nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Non c’è una guerra, anche se la scorsa settimana – così come nel dicembre 2008 – i giornali greci ed europei parlavano nella migliore delle ipotesi di “guerriglia urbana”, nella peggiore (ma tutt’altro che rara) di “guerra civile”, un concetto così familiare quando parliamo dei PIGS.

L’impressione, banale, è che la guerra – come sempre nelle crisi economiche – sia latente in Europa, e che la diplomazia la prosegua con altri mezzi. Mezzi sacrosanti, beninteso, come gli accordi di Bruxelles e gli aiuti per salvare l’economia greca. Ma che non sfuggono alla scomoda immagine di pezze assestate in attesa di un altro “attacco speculativo”, di un altro “incalzare degli eventi” che sovrasterà con le sue forze immani. Di un’altra prova di debolezza strutturale (il cemento, come all’Aquila) dell’edificio in cui ci pigiamo.

Che la prima provetta continentale di questo sinistro esperimento sia la Grecia non è solo l’ironia della storia, o la logica conseguenza dei bilanci, o lo strascico della corruzione bipartisan degli ultimi trent’anni. Tra le nazioni dell’Eurogruppo, la Grecia è – per ovvie ragioni storiche – quella meno adusa alla mentalità capitalistica impostasi in Occidente a partire dal ‘500; ed è anche quella dove rimane il più forte partito comunista europeo (il “glorioso” KKE, che è la terza forza con il suo 8%), e dove più visibile è la presenza di gruppi anarchici. Per rendersene conto basta fare un giro nel quartiere di Exàrchia, alle spalle del Politecnico, e leggere i volantini o i graffiti sui muri, spesso in lingue diverse dal greco (come s’immaginerà, i retaggi labronici vi abbondano), oppure andare in cerca dei postumi dell’ultimo atto dimostrativo o di guerriglia – bruciature, fuochi di ferro e di paglia.

Molti ricorderanno che al principio di dicembre 2008 il Paese – ancora nelle mani delle  vituperate destre – fu messo davvero a ferro e fuoco in seguito all’uccisione di un sedicenne, Alexis Grigoròpulos, avvenuta proprio nel cuore di Exarchia durante la repressione poliziesca di una delle tante, quotidiane dimostrazioni. All’epoca, per vari giorni di seguito, non scesero in piazza soltanto i facinorosi o i teppisti: di giorno le manifestazioni erano oceaniche, i sampietrini volavano contro la Vulì e contro i poliziotti dalle mani di studenti, donne e pensionati; di notte, gli “incappucciati” – bande ben organizzate, capaci di mobilitarsi nel giro di mezz’ora in ogni città della Grecia – devastavano le banche e i negozi alla moda, ed era evidente che potevano contare, se non sul sostegno, almeno sull’acquiescenza di una parte della popolazione.

All’epoca, certo, la crisi mordeva, e imperversava il rancore di molti contro i finanziamenti alle banche e contro la crescita della disoccupazione. Ma era un niente, quasi un mal comune d’Europa, in confronto alla catastrofe sociale che si profila con le misure approvate mercoledì.

All’epoca, gli striscioni (non di piccole frange, non degli incappucciati: di quegli oceani), così come le pagine dei giornali (prendete l’«Eleftherotipìa» dell’11.12.2008), erano popolati dei messaggi di amici e coetanei di Alexis, che identificavano il “voi” nemico con coloro che non avevano offerto al popolo – e ai giovani in particolare – una storia di verità: ma solo una narrazione di consumismo taroccato, di effimera ricchezza: “Vivete vite false, avete piegato la testa e abbassato i pantaloni! Comprate e vendete, e basta! MERCE OVUNQUE – AMORE IN NESSUN LUOGO – VERITA’ IN NESSUN LUOGO!”.

Forse in pochi altri Paesi domande così sostanziali vengono ormai poste seriamente, anche nei momenti di crisi. Ma non si tratta di sfoghi adolescenziali, o certamente non solo di questo; e certo non si tratta di rigurgiti corporativi, ché non vi è alcuna rivendicazione sindacale a monte: dietro, al contrario, c’è un’altra visione della vita, in cui inevitabilmente, e polemicamente, fa capolino la secolare difficoltà della Grecia a concepirsi come parte dell’Europa capitalistica, a “reinventare” la sua anima orientale sulla base di modelli esterni.

E dunque c’è da chiedersi se in quel “voi” degli striscioni si celino solo i politici corrotti del Parlamento greco (sulla residua credibilità di quelli oggi al governo – e al governo l’altroieri – si gioca in fondo tutta la tenuta del Paese: si può temere che sia una garanzia piuttosto labile), o non piuttosto una certa deriva dell’Occidente che oggi, a un anno e mezzo di distanza, sta confermando i sospetti peggiori.

Cambiavalute di anime, la guerra. L’immagine di Seferis – condensata in un ardito neologismo (psychamoibòs) –  modifica un verso di Eschilo (Agamennone 438), in cui la guerra (quella di Troia, ma non solo; anzi, il dio Ares in persona) è “cambiavalute di corpi” (chrysamoibòs somaton). È difficile definire un’anima, difficile afferrarla quando – come spesso accade – è scissa, divisa, o – anche putativamente – condivisa. Di certo, pare che la Grecia non sia pronta a vendere la propria in cambio d’oro.