domenica 13 Luglio 2025
C’è stata questa settimana una vivace polemica americana intorno a un articolo del New York Times: polemica interessante sia perché riguarda il giornale più importante del mondo, sia perché ha implicazioni sul giornalismo più in generale.
Qualcuno si è impadronito di un database di candidature alla Columbia University di New York dei decenni passati, e ha offerto al New York Times (e ad altri, pare) i documenti della candidatura del 2009 di Zohran Mamdani. Mamdani è diventato famoso nel mondo e ammirato e temuto negli Stati Uniti dopo avere vinto le primarie Democratiche a sindaco di New York con una campagna considerata molto di sinistra. Ha 33 anni e nel 2009 aveva appena finito il liceo: la sua candidatura alla Columbia University non avrebbe avuto seguito.
Dai documenti relativi, verificati dal New York Times che ne ha riferito in un articolo del 3 luglio, risulta che Mamdani abbia riempito i moduli che lo richiedono identificandosi sia come “asian” che come “african american”, e spuntando le caselle relative. Mamdani è nato in Uganda, dove la sua famiglia ha vissuto fino ai suoi cinque anni prima di trasferirsi per altri due in Sudafrica, e infine negli Stati Uniti. Sua madre è indiana, suo padre è ugandese nato in India da genitori indiani. Tutta la campagna elettorale di Mamdani e la sua descrizione di se stesso fanno riferimento al suo essere di orgine indiana e musulmano. Indicarsi anche come “african american” gli avrebbe dato maggiori possibilità di accettazione alla Columbia per via delle facilitazioni allora concesse alle minoranze razziali. E la rivelazione di questa scelta, a 18 anni, adesso gli sta attirando accuse – da parte dei suoi interessati avversari elettorali – di avere cercato di imbrogliare, per di più approfittando di una comunità discriminata che non è la sua.
Al New York Times Mamdani ha spiegato di avere ritenuto che le due indicazioni fossero il modo migliore per dare conto della sua particolare condizione di “indiano-ugandese” e di “americano nato in Africa”.
Le critiche nei confronti della scelta del New York Times di pubblicare un articolo su questa “notizia” sono state fatte soprattutto da sinistra, da chi ritiene che il New York Times abbia posizioni pregiudiziali contro Mamdani (in un suo endorsement-non-endorsement il giornale aveva molto criticato l’inesperienza di Mamdani suggerendo di non votarlo) e da chi accusa da tempo il giornale di voler raggiungere lettori e lettrici non progressisti prendendo occasionali posizioni meno allineate con le opinioni dei “liberal”. E per la prima volta dopo tanto tempo si sono mostrate critiche di questo genere anche dall’interno della redazione, che il direttore Joe Kahn aveva tacitato dopo il suo insediamento nel 2022.
Ma ci sono state soprattutto critiche sulle scelte giornalistiche: la prima è sulla “notiziabilità” di un’informazione come questa e sulla promozione sproporzionata data a un argomento politico di piccola o inesistente misura, secondo i critici. La seconda è sull’utilizzo di informazioni provenienti da un furto di dati: in altri casi precedenti i più seri giornali americani avevano scelto di non divulgare documenti di origine simile. La terza obiezione riguarda la valutazione delle motivazioni della fonte: i documenti sono stati diffusi in giro e al New York Times da un famigerato razzista molto attivo sui social network e con una sua newsletter, e l’articolo non lo spiegava. Anzi, l’articolo non lo citava per nome, come a voler proteggere la fonte, ma ne indicava lo pseudonimo con cui è noto su internet. Tra i molti che hanno criticato l’articolo c’è stata anche Margaret Sullivan, stimata esperta di informazione ed etica giornalistica che scrive sul Guardian ed è stata “public editor” del New York Times.
Il New York Times si è difeso con alcuni interventi sui social network e con un articolo che ha dato conto delle critiche: sostenendo che le informazioni su Mamdani siano di interesse pubblico a partire dalla sua candidatura a sindaco. Il sito Semafor ha spiegato anche che il New York Times avrebbe temuto che lo “scoop” potesse essere pubblicato da altri.
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