domenica 13 Febbraio 2022

Contare gli abbonati ma anche quanto pagano

La newsletter Ellissi di Valerio Bassan ha ripreso una questione accennata nell’intervista della settimana precedente col direttore del Post e ha approfondito le considerazioni su fragilità e ingannevolezza dei numeri degli abbonamenti digitali ai giornali (citando un’altrettanto utile e chiara analisi della newsletter di Lelio Simi, altro esperto di media e innovazione).

“Per misurare il successo di un’azienda subscription-based ci sono tre dati centrali. 

Il numero di subscriber attivi totali; 
Il ricavo medio per utente pagante o per abbonato (ARPPU/ARPS), di cui ti ho parlato sopra; 
Il customer lifetime value (CLTV), ovvero il valore generato dall’utente nel corso della sua lifetime, del suo ciclo di vita come cliente dell’azienda.

Di solito quando un giornale o una piattaforma annunciano il proprio numero di subscriber, quasi mai rivelano la propria ARPPU, il che rende pressoché impossibile capire il reale valore di ciascun abbonato – pardon, abbonamento – attivo.
Questo rende arduo capire anche chi tra Netflix, Amazon, Disney e compagnia stia vincendo la sanguinosa ‘guerra dello streaming’.
Il numero totale dei subscriber, dunque, è ancora un indicatore dello stato di salute di una media company o di una piattaforma video?
Sì, ma omette un pezzo fondamentale della storia, visto che un +25% di abbonati non corrisponde mai a un +25% di profitti.
Se il numero dei subscriber attivi è il termometro posto all’ingresso del supermercato, l’ARPPU è il saturimetro: ci dice quanto ossigeno c’è in un dato momento nel sangue di una azienda.
Per questa ragione è di gran lunga il dato più importante: non solo perché ci aiuta nella diagnosi, ma anche perché ci permette di prevedere meglio cosa succederà in futuro”.

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