domenica 12 Giugno 2022

Chi paga la disinformazione

Check my Ads è un’organizzazione americana che si occupa di indagare e verificare i casi in cui inserzionisti pubblicitari investono in siti e testate giornalistiche che producono informazioni false o pubblicano incitamenti alla violenza, all’odio, alla discriminazione razziale e sessista: investimenti che da una parte finanziano questo genere di informazione e le sue conseguenze, e dall’altra associano gli inserzionisti a questo tipo di contenuti, con pessimi risultati per l’immagine dei loro brand e prodotti. Questa settimana negli Stati Uniti si è parlato di Check my Ads perché ha deciso di accusare in questo senso la potente e seguita rete televisiva Fox News, e di chiedere alle aziende che la sostengono con la loro pubblicità di prendersi la responsabilità della loro scelta di finanziare una tv che “cerca di rovesciare il governo” e che ha appoggiato l’insurrezione del 6 gennaio 2021.
In anni in cui l’etica e la responsabilità morale e civile delle aziende nel buon funzionamento delle nostre società è finita molto sotto osservazione, è un’ottima idea che non le si assolva per la loro indifferenza alla disinformazione che spesso appoggiano. Anche in Italia ci sono siti di notizie, ma anche giornali di carta, che quotidianamente sobillano e aizzano divisioni e contrapposizioni pericolose, per ragioni ideologiche o di interesse commerciale, diffondendo falsificazioni della realtà: e lo fanno grazie ai soldi di inserzionisti pubblicitari che fanno come se questo non li riguardasse. Ma la “responsabilità sociale delle imprese” non si limita alle attualissime questioni ambientali o a quelle del lavoro dei propri dipendenti: riguarda anche la scelta di sovvenzionare o no gli avvelenatori di pozzi , anche nel nostro paese in cui l’avvelenamento è esteso (basti pensare ai criticati talk show televisivi: cominciamo a segnarci di chi è la pubblicità che ospitano). In mezzo a tanto greenwashing, anche un po’ di newswashing non farebbe male.

Fine di questo prologo.

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