domenica 6 Aprile 2025

Charlie, va tutto benissimo

Un culto del “consenso popolare” viene spesso usato strumentalmente per criticare progetti o iniziative meritevoli o di qualità che non abbiano grandi successi di pubblico. Avviene soprattutto con la televisione, dove gli stessi che spesso contestano la dipendenza dallo “share” nel costruire programmi e palinsesti, poi sono i primi a indicare o a irridere le fatiche iniziali di nuovi programmi nell’ottenere grandi numeri.
Ma in generale succede in molti ambiti di produzione “culturale”, dove risultati di pubblico ed economici vengono usati come criterio universale di giudizio. Come tutti sappiamo non è sempre vero che “la qualità paga”: il mercato è democratico ma – come i sistemi democratici – anche facilmente influenzabile da fattori che con la qualità dei prodotti c’entrano poco.

Questa newsletter cerca di tenere dentro entrambi gli aspetti e di distinguerli: il dannato futuro del giornalismo è sia la sua qualità che la sua sostenibilità, e le due cose a volte sono in relazione e a volte no. E se un progetto giornalistico ha successo economicamente, questo è interessante e apprezzabile, ma non necessariamente promettente per il buon funzionamento delle comunità che serve. E viceversa (il Post ha poi buona memoria di alcuni frettolosi commenti che lo diedero per spacciato, leggendone sbrigativamente i primi bilanci, tanti anni fa).

Tutto per dire che il racconto dei bilanci delle aziende giornalistiche meriterebbe maggior chiarezza e sincerità da parte delle aziende stesse: nessuno si scandalizza, di questi tempi, se un giornale fatica economicamente. E questa fatica non significa che il giornale non faccia un buon lavoro giornalistico. O viceversa, nessuno pensa che un giornale in salute lo faccia: le aziende giornalistiche possono essere in salute per un ottimo lavoro sulle sezioni giochi e cucina, o perché vendono bene i loro spazi e lettori agli inserzionisti pubblicitari, o perché individuano una domanda identitaria da parte dei lettori e la soddisfano, tutti esempi apprezzabili di un lavoro che però non è quello giornalistico.

Tutto per dire, dicevamo, che sarebbe interessante ricevere dalle aziende giornalistiche dei rapporti sui loro andamenti un po’ meno artefatti e oscuri – un po’ più “spiegati bene” – di quelli che vengono pubblicati abitualmente, confezionati in modo da far sembrare tutto florido e da confondere la comprensione. Lo ha fatto implicitamente notare questa settimana la newsletter italiana Mediastorm, esaminando le più recenti comunicazioni di bilancio di alcuni dei maggiori quotidiani italiani, e mostrando delle incongruenze e mancanze tra i titoli degli articoli relativi e la sostanza delle cose. La distanza tra giornalismo e pubblicità (di se stessi) dovrebbe valere anche per questo genere di informazione consegnata ai lettori e alle lettrici.

Fine di questo prologo.

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