domenica 27 Novembre 2022

Charlie, fare meno previsioni

Abbiamo parlato già una volta di James Fallows, che descrivemmo così: “James Fallows è un illustre giornalista americano di 72 anni, che è stato a lungo uno degli autori più importanti del magazine Atlantic (oggi uno dei siti di approfondimento e news più importanti e riusciti), ha scritto per molte altre testate e per due anni ha fatto anche lo speechwriter del presidente Jimmy Carter”.

Nelle scorse settimane Fallows si è impegnato, sulla sua newsletter altrove , ad analizzare l’inclinazione di una parte del giornalismo americano verso il voler “prevedere” le cose: in politica e nelle elezioni, soprattutto, ma non solo. L’occasione è stata il risultato delle elezioni di metà mandato, risultato diverso da quello che era stato dato come probabile – o persino certo – da quasi tutti i i mezzi di informazione: e, con più cautela professionale, anche come il più probabile da parte dei sondaggisti. Ma il punto, dice Fallows, non è aver sbagliato le previsioni : è averle fatte. È la deriva “predittiva” di gran parte dell’opinionismo sui giornali: e secondo Fallows questa deriva dipende da una rincorsa al credito e all’autorevolezza, presso il pubblico, che un giornale o a un giornalista possono ottenere dando informazioni sul futuro. Dando l’impressione che il giornale o il giornalista sappiano quello che succederà. Anche quando non possono saperlo con certezza.

Lasciamo Fallows, e vediamola più in generale con alcune osservazioni.
1. La storia di questo secolo è già affollata di grandi eventi che la gran parte dell’informazione non aveva previsto (con parallela creazione mediatica del caso di “quello che l’aveva previsto”, statisticamente inevitabile). E l’accelerazione dei cambiamenti rende gli sviluppi sempre meno lineari e sempre con più variabili imponderabili.
2. L’esibizione di conoscenza – o di “maggiore” conoscenza, informata, privilegiata – su quello che sta succedendo e che succederà è diventata un tratto delle più comuni relazioni umane, nelle nostre società: non soltanto delle attività giornalistiche ed editoriali. Uno strumento di competizione per l’affermazione sociale.
3. Sui mezzi di informazione, ma anche sui social network, non si è mai davvero ” accountable” di ciò che si prevede. La successione e confusione di previsioni e opinioni è così densa e ininterrotta che nessuno risponde di quelle sbagliate tre giorni prima: ne sta già diffondendo altre. Si veda la presenza quasi quotidiana come esperti nei programmi televisivi di persone che avevano escluso l’invasione russa in Ucraina, o la possibilità che l’Ucraina resistesse più che qualche settimana. O gli adattamenti continui delle ipotesi in due anni di pandemia. Ma gli esempi sono tanti.

Il fatto è che queste persone – e i giornalisti in genere – dovrebbero essere esperti di due cose diverse, invece, per aiutare tutti a capire: del saper spiegare quello che si sa ma anche che c’è molto che non si sa, e del saper ricordare a tutti che ci sono variabili ignote che impediscono in molti casi previsioni e pronostici affidabili. E del saper dire “non lo sa con certezza nessuno” senza temere che la telecamera si sposti immediatamente su un collega con maggiori certezze. Non è facile, perché a spiegare che molte cose sono complesse e inafferrabili, e a negare risposte esatte e perentorie sul futuro, si perdono palcoscenici e attenzione, si perdono inviti televisivi, contratti per libri, sponsor per le proprie lezioni e TED Talk. Viviamo in un contagioso sistema che incentiva a fare previsioni sbagliate.

Fine di questo prologo.

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