domenica 8 Giugno 2025

Charlie, dire o spiegare

I referendum di questi giorni sono un buon esempio concreto per tornare a spiegare quello che avevamo descritto due domeniche fa come il dibattito giornalistico più attuale – benché antico – di questi tempi: quello tra un giornalismo più “impegnato”, che dia a chi legge opinioni e idee strutturate e convinte, e abbia una quota di “attivismo”, e un giornalismo più distaccato nelle posizioni ma di maggiore credibilità e minore parzialità nel dare le informazioni necessarie a crearsi delle opinioni. Entrambi gli approcci hanno buone ragioni – se affrontati in buona fede e con correttezza – ed entrambi hanno debolezze.

Il modo con cui sono stati trattati i referendum, dai giornali, è appunto un buon esempio di questa alternativa: ci arriviamo, ma prima bisogna anche dire che è un buon esempio del fatto che neanche questa alternativa è netta, ma che anzi qualunque scelta contiene una quota sia dell’uno che dell’altro modo di intendere il giornalismo.
Da una parte, nelle scorse settimane molti articoli e interventi giornalistici sono stati confezionati e prodotti per aiutare gli elettori e le elettrici a capire le implicazioni del loro voto, qualunque fosse: scelta particolarmente preziosa in questa occasione in cui la materia di quattro referendum è già molto complessa (pensate invece a quando si votò per decidere se in Italia fosse lecito divorziare: tutto piuttosto immediato e chiaro; o al quinto referendum, quello sui tempi di richiesta della cittadinanza: cinque o dieci anni), e la formulazione dei quesiti la complica ancora di più.
Naturalmente anche questo modo di informare ha sempre una dose di soggettività e di parzialità: proprio perché la materia è molto ricca di fattori e contesti, quello che si sceglie di spiegare o no fa una notevole differenza nell’idea che si forma chi legge, o ascolta.

Da un’altra parte, sono stati pubblicati molti articoli dedicati a convincere i destinatari a votare in un modo o in un altro (o persino a non andare a votare): in alcuni casi espliciti fin dal titolo, “Perché votare sì [o no] ai referendum”. Articoli i cui autori, assieme ai giornali che li hanno pubblicati, ritengono che il proprio ruolo sia convincere chi legge della bontà di determinate scelte e azioni.
E anche in questo caso, molti di questi stessi articoli contenevano anch’essi informazioni e spiegazioni a sostegno di quella indicazione, utili a farsi un’idea comunque (stiamo sempre implicando un’accuratezza e affidabilità dei fatti esposti, comunque).

Ecco, le sfumature sono tante e le separazioni mai nette, ma diciamo che i due estremi di queste scelte giornalistiche sono “informare senza prendere posizione” e “suggerire una posizione da prendere”. E non vi sembri più nobile la prima delle due solo per come suona rispettosa: i suoi critici hanno buoni argomenti sul fatto che soprattutto in caso di conseguenze molto importanti la prima rischi di non opporsi o favorire a sufficienza queste conseguenze (i suoi sostenitori sostengono invece che un’informazione completa e credibile è sempre la migliore opposizione a ogni conseguenza indesiderata).

Il caso dei referendum è un buon esempio anche di questa incertezza: considerata la varietà di fattori, cose da considerare, conseguenze possibili, contesti diversi, pochissimi di noi avranno ricevuto dai giornali informazioni sufficienti e sicure sulle conseguenze del proprio voto. “Fidarsi” di quel che suggerisce di fare il proprio giornale può allora essere un’aspettativa comprensibile.
Sempre che si concepisca il voto come strumento di miglioramento del funzionamento democratico delle comunità, e non come affermazione identitaria e partigiana, ma questa è un’altra questione.

Fine di questo prologo.

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