domenica 23 Ottobre 2022

A Repubblica “non c’è più tempo”

Venerdì i giornalisti di Repubblica hanno pubblicato sul quotidiano e sul sito un lungo e polemico comunicato: a differenza di altri comunicati sindacali o dei Comitati di redazione – spesso fumosi o allusivi, dedicati a confronti con l’azienda più che a farsi comprendere dai lettori – questo era piuttosto concreto e ricco nelle sue contestazioni. Ma prima di spiegarlo bisogna che descriviamo un momento il contesto di Repubblica: i lettori di Charlie non sono ignari delle sue difficoltà per via degli impressionanti cali di diffusione del giornale che citiamo ogni mese quando parliamo dei dati dei quotidiani, ma la storia è molto più ampia.

Comincia dallo storico passaggio di proprietà del gruppo GEDI, editore di Repubblica e della Stampa, tra le altre cose: tre anni fa. Non un semplice cambio di editore, ma il passaggio del giornale più grande e influente della sinistra italiana a un gruppo industriale multinazionale enorme, che per una gran parte della sinistra suddetta è sempre stato nel peggiore dei casi un odiato nemico, o nel migliore dei casi un avversario con cui mantenere educati rapporti. E il nuovo editore non dice, come spesso capita in questi casi, “non cambierà niente, l’identità del giornale va conservata”; ma per bocca del nuovo direttore, giornalista di stimato curriculum ma che ha anche dimostrato grande complicità con l’editore negli anni precedenti, fa sapere che Repubblica diventerà un’altra cosa, non rivolta solo a lettori progressisti, in competizione con il Corriere della Sera sui lettori di ogni orientamento politico.

La scelta diventa presto palese in molte parti del giornale (nuovi collaboratori con posizioni meno progressiste, l’abbandono di autori storici e identitari del giornale, opinioni che spiazzano molti lettori, grande spazio alle ragioni promozionali delle aziende collegate al nuovo editore), e genera rapidamente un cospicuo calo di vendite e di visite: Repubblica è ormai enormemente staccata dal Corriere della Sera per diffusione del giornale, ed è stata superata anche sul web.
Dapprima editore e direttore ostentano indifferenza, lasciando capire che un piano lungimirante di ripensamento del giornale implichi inevitabilmente dei sacrifici durante la transizione, ma nel frattempo i tratti della transizione e della lungimiranza non appaiono molto chiari: né dal punto di vista del prodotto editoriale e dei suoi contenuti né dal punto di vista dell’innovazione, malgrado una predicazione di “digital first” che era apparsa già comunque datata, al suo tornare slogan nel 2020. L’unico intervento più visibile è commerciale, con la costruzione di sezioni “verticali” tematiche pensate per vendere più facilmente la pubblicità, e le esigenze pubblicitarie che sembrano contaminare maggiormente alcune scelte del giornale.

E così, malgrado l’editore abbia interessi industriali su scale straordinariamente superiori a quella di un gruppo di giornali italiani, e malgrado l’opinione di alcuni che l’acquisto e “irregimentazione” del giornale che in Italia poteva essere più critico nei confronti di alcune sue scelte nazionali sia un risultato soddisfacente, prima dell’estate di quest’anno qualche preoccupazione sulle prospettive comincia a essere discussa non solo nelle redazioni: in solo un anno e mezzo il giornale ha perso il 28% delle copie vendute in edicola e il 21% di quelle digitali non scontate. E malgrado le complicazioni contemporanee del business dei giornali abbiano aspetti economici e culturali molto meno semplici e molto più globali di così, riprende qualche vigore una corrente di pensiero per cui il problema di Repubblica sarebbe l’aver abbandonato la sua vecchia identità e che la soluzione possa essere “tornare alla vecchia Repubblica “. E per questa corrente di pensiero la scelta più a portata di mano potrebbe essere di dare la direzione del giornale a Massimo Giannini, giornalista molto fedele a quella vecchia impostazione che ora ha trasferito alla Stampa , di cui è direttore da due anni (e dove pure ci sono tensioni sul lavoro in redazione): questi elementi spiegano come mai, nelle scorse settimane, siano circolate voci e ipotesi – anche forse fatte circolare – di sostituzione del direttore di Repubblica Maurizio Molinari, che però sembrano lontane dalle intenzioni dell’editore (di cui è poco realistico un “ripensamento”, e meno ancora una disponibilità a una “restaurazione”). E che un annuncio di nuovi ruoli nella redazione da parte del direttore è sembrato ulteriormente ridimensionare.

E arriviamo infine al comunicato pubblicato venerdì (che arriva dopo una discussione interna che ha portato alle dimissioni del Comitato di redazione), che pone una serie di questioni puntuali ma che sono alimentate, e a loro volta alimentano, dal contesto generale descritto. I giornalisti di Repubblica protestano per come il giornale tradirebbe se stesso sui “diritti” rispetto ai contratti e per le ultime nomine, contestano la pretesa vaghezza del progetto sul giornale e criticano la stessa scelta del “digital first” – peraltro attuata a loro dire con risorse e visioni insufficienti – chiedendo che non sia trascurata la carta e sottolineando il “calo di copie in edicola”, e accusano l’azienda di indifferenza e indisponibilità.

“Non c’è più tempo. I giornalisti di Repubblica sono stanchi di promesse vaghe su risultati che non arrivano. Gli incontri estivi non hanno aperto strade da intraprendere insieme. Eppure il momento storico è tale da richiedere impegni concreti immediati. Siamo determinati ad alzare il livello dello scontro in mancanza di risposte adeguate. Ne va della nostra reputazione ed è nell’interesse dei lettori che ci danno fiducia”.

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