domenica 6 Settembre 2020

A nome di chi

Non è una questione nuova, quella delle possibili contraddizioni tra la comunicazione personale dei giornalisti e il loro ruolo di rappresentanti della loro testata, quando non ne sono i direttori. Dai social network in poi, la libertà dei singoli giornalisti di esprimere delle opinioni è entrata spesso in conflitto con questa o quella linea generale dei loro giornali: sia su determinate questioni, che in generale sull’opportunità o sul modo di comunicare ed esprimersi. Ci sono giornalisti che hanno una notorietà oppure una visibilità online per cui i lettori li riconoscono col loro nome e cognome prima di tutto, mentre altri vengono percepiti come “di quel giornale”: lo sventato tweet di Paolo Berizzi di cui parlammo la settimana scorsa è stato citato da molti dei suoi critici come proveniente in ogni modo “da Repubblica”, ma è solo l’esempio più recente e discusso.
Negli anni passati diverse testate internazionali hanno stabilito delle linee guida per i loro giornalisti sui social network, ma molte di quelle impostazioni sono diventate datate e rigide con la maggiore frequenza quotidiana e continua dell’uso degli stessi social network da parte di tutti. Al Post non abbiamo mai stabilito niente in questo senso, potendo contare – con ottimi risultati, anche se qualche volta un tweet di cui sarebbe stato meglio fare a meno è scappato anche ad alcuni di noi – su una idea condivisa di quali siano i più saggi e prudenti comportamenti pubblici e quale sia il bene del Post. Ognuno è responsabile del suo account personale e lo usa come account personale.
La questione è tornata a essere posta dal nuovo direttore generale di BBC, che dovendosi impegnare per ricostruire un’immagine “imparziale” di BBC in tempi in cui la rete è piuttosto sotto attacco, ha detto ai suoi che “Se volete fare gli opinionisti o gli attivisti impegnati sui social media è una scelta legittima, ma allora non dovete lavorare per BBC”.
Di certo suona come una limitazione non tanto alla libertà – le libertà conoscono sempre dei limiti e dei compromessi – ma alla qualità e alla ricchezza dell’informazione e del dibattito pubblico: è vero però che sono tempi in cui le strumentalizzazioni da parte dei critici pregiudiziali sono molto facili e pericolose, e quindi le prudenze sono comprensibili. Sta anche questo, in un suo spazio particolare, nel discorso sul sempre più grosso repertorio di cose che “è diventato più complicato dire”.

Fine di questo prologo.

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