domenica 20 Febbraio 2022

50 anni senza perdere una causa per diffamazione

Il giudice ha rigettato la richiesta di danni per diffamazione di Sarah Palin nei confronti del New York Times, la storia che avevamo riassunto domenica scorsa e che abbiamo raccontato con maggior completezza sul Post.

“Per avere successo la denuncia di Palin – che ha ritenuto insufficiente la correzione rispetto al danno comunque subito – avrebbe dovuto dimostrare che l’errore non fosse stato compiuto per disattenzione, come sostenuto dal quotidiano, ma fosse frutto di “effettiva malafede” (“actual malice”).
È una discriminante prevista dalla legislazione americana, una delle più garantiste al mondo riguardo alla libertà di stampa, introdotta da una sentenza della Corte Suprema del 1964, in un caso relativo sempre al 
New York Times (New York Times v. Sullivan). L’accusa doveva dimostrare che il giornale aveva pubblicato informazioni pur essendo pienamente cosciente della loro falsità, o con un totale disinteresse riguardo alla loro veridicità: in questo dedicando parte dei suoi argomenti all’inclinazione politica del giornale e a presunti pregiudizi contro Palin. Per questo gli avvocati di Palin hanno cercato di dimostrare che Bennet fosse “prevenuto” nei suoi confronti e hanno chiesto di ricostruire tutti i passaggi che avevano portato alla pubblicazione dell’editoriale. Lo stesso giudice Rakoff, nel rifiutare gli argomenti contro il giornale, ha sottolineato la gravità dell’errore e ha detto di non essersi stupito della scelta di Palin di fare causa”.

Successivamente la stessa giuria ha convenuto con la decisione del giudice: che si era pronunciato in modo anomalo mentre la giuria era ancora ritirata per deliberare. Alcuni dei giurati erano quindi stati informati della sua decisione. Secondo alcuni commenti questo potrebbe essere un appiglio solido per un ricorso di Palin contro la sentenza, e il dibattito sul fatto che la questione non si chiuderà facilmente è molto vivace.

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