Il 25 aprile del 1994

Il 25 aprile 1994 a Milano pioveva che Dio la mandava. Meno di un mese prima erano arrivate sonore sberle a chi aveva votato centrosinistra. Una botta di quelle che non si dimenticano. Si era votato due giorni, 27 e 28 marzo (il 27 era la Pasqua ebraica, così si diede tempo fino a lunedì sera), i risultati ufficiali arrivarono a tarda sera del 28 ma già nel primo pomeriggi  le notizie dagli exit poll delle televisioni e dei partiti parlavano chiaro, per Berlusconi era un trionfo. In Sicilia ci fu il famoso 61 a zero. 61 a zero, e cioè nei collegi uninominali avevano vinto tutti i candidati del Polo della libertà e del buon governo (così si chiamava allora). Agli altri, nemmeno uno.

Che sarebbe finita così si era capito. Da una parte c’era una macchina che andava a 300 allora, dall’altra una congenita lentezza di riflessi. Mi sono rimaste impresse delle immagini di quei giorni. Mi ricordo per esempio Raimondo Vianello che in diretta a Pressing, la domenica prima del voto, diceva tutto contento che avrebbe «votato per il presidente», «Ma il presidente chi? Scalfaro?» ridacchiava Antonella Elia, e lui «No, il presidente nostro, Berlusconi». Di scene così se ne videro a decine, mi ricordo le discussioni infinite con persone che erano rimaste stregate dal “presidente”.

A metà aprile giravano le prime liste dei ministri, si diceva che Cesare Previti sarebbe andato alla Giustizia (poi andò alla Difesa). Erano ministri tipi come Vito Gnutti e Giancarlo Pagliarini. C’era Francesco Speroni alle Riforme Istituzionali. Speroni, quello col cravattino di cuoio, 15 anni prima di Calderoli. C’erano poi dei nomi che, almeno a me, non dicono più nulla: Sergo Berlinguer ministro degli Italiani nel mondo, Domenico Comino alle politiche europee, Roberto Radice ai Lavori Pubblici. C’era già Mastella, al Lavoro. E Giuliano Ferrara ai Rapporti con il parlamento. Anche qui ho dei flash di immagini. Giuliano Ferrara che si fa largo tra i cronisti mettendo le mani sulle spalle di Minzolini che gli apre la strada: una specie di trenino di Capodanno. E poi l’elezione di Scognamiglio a presidente del Senato, portato in trionfo in aula con cori da stadio.

Insomma, il clima era questo. Ho letto recentemente il libro di Francesco Piccolo, “Il desiderio di essere come tutti”. Racconta che la sera del 28 marzo 1994, quando vinse Berlusoni, quella che sarebbe diventata sua moglie disse «Ma che vuoi che sia?». Aveva ragione lei, dice Piccolo oggi. Forse sì, forse è vero. A vederla oggi. Ma allora io di gente che dicesse «Ma che vuoi che sia?» non ne conoscevo proprio. C’era gente che in piazza del Popolo a Roma e in piazza Duomo a Milano saltava facendo il saluto romano ritmando «Chi non salta comunista è». Che vuoi che sia.

Insomma, a quel 25 aprile da sinistra si arrivava intontiti e bastonati. Il Manifesto lanciò allora l’idea di una grande manifestazione nazionale a Milano, per celebrare la Liberazione e far vedere che la sinistra esisteva ed era ben forte. Una specie di brodino al malato. Hanno vinto loro ma noi siamo tanti e facciamo una bella manifestazione.

Ma siccome quell’anno non andava bene niente, appunto pioveva che Dio la mandava.

Sbucando in piazza Venezia, da dove partiva il corteo, incontrai un gruppo che arrivava da Siena. Uno stava dicendo, scuotendo la testa «Ma io un’acqua così nemmeno per il Palio la prendo». A un certo punto, più o meno all’angolo con corso Buenos Aires, spuntò un gruppo di 200 persone con le bandiere della Lega. Ci fu una specie di ruggito, partirono insulti e non solo. Quella sera a “Milano Italia” su Raitre (credo la conducesse Enrico Deaglio), un militante leghista si alzò e disse «Guardate, ci hanno tirato anche sassi così». Bossi, che era sul palco, disse più o meno «Ma sì, le manifestazioni popolari sono così, normale che ci sia un po’ di rabbia. Ma il nostro posto è lì, noi siamo antifascisti». Insomma, iniziava a prendere le distanze: come sarebbe poi finita (beh, finita), nel novembre di quell’anno, è storia. L’anno dopo, il 25 aprile 1995, la Lega sfilò ancora nel corteo a MIlano. Non ci furono sassi e insulti ma applausi, ovviamente. Erano diventati buoni. Poi, dall’anno seguente, non sarebbero più apparsi.

La sera del 25 aprile 1994 smise di piovere ma ormai erano tornati tutti a casa fradici. Magari ci si sentiva un po’ sollevati, ma mica tanto. Sarebbe più o meno andata sempre così nei vent’anni seguenti. Quando piove ci si bagna.

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.