Popolo del web, nel 2015

Ancora nel 2015 c’è in prima pagina sul Corriere della Sera un articolo che ritiene di attribuire “all’ordalia della Rete”, al “popolo del web”, agli “a-social network”, le deteriori e stupide iniziative di alcuni. Nel 2015.
Scrive Aldo Grasso che il problema degli attacchi a Gianni Morandi è proprio nella Rete, in quanto tale. Nel 2015.

Ora, mi annoio io stesso a dire ancora queste cose, nel 2015, ma evidentemente ce n’è bisogno.

Uno – Le cose che Gianni Morandi ha scritto e per cui è stato attaccato, le ha scritte proprio “sul web”. Le ha scritte su un “a-social network”. Se non ci fosse il web, non le avrebbe scritte. Gianni Morandi è lui stesso “popolo del web”; come lo è Aldo Grasso con le cose che mette online sul sito del Corriere, compreso il suo articolo di oggi: Corriere che a sua volta è una parte rilevante di quello che produce il web italiano, molto più di qualche sconosciuto su Facebook che insulta Gianni Morandi. Il web è il Corriere, è Morandi, è Aldo Grasso e mille altre cose. Grazie al cielo.
Questa illogica semplificazione di sostenere che i cattivi siano “il popolo del web” è come dire che quelli che hanno insultato la Brigata Ebraica ieri sono il popolo italiano.
(Già, sto dicendo queste cose, nel 2015: pensa tu).

Due – Se c’è in giro un’aggressività sopra le righe, una ricerca di affermazione di sé e di senso che si esplicita nell’attaccare persone famose o istituzioni, un’inclinazione all’indignazione permanente e sterile pur di sentirsi esistere, un bastiancontrarianesimo che finisce per prendersela con Gianni Morandi; se ci sono in giro queste cose – e sono in giro sia in Rete che fuori dalla Rete – non è internet che le ha create, alimentate, nutrite, e lo fa ogni giorno. È chi è andato per anni a raccontare agli italiani che tutto è una vergogna e che bisogna indignarsi, e poi va’ a finire che ci indigniamo con Gianni Morandi e pensiamo che la vergogna sia lui. E scegliere un personaggio settimanale da mettere alla gogna per una rubrica fissa in prima pagina, se posso permettermi un parere, non aiuta.
“Mettere sotto processo”, “vigilare”, “diventare giudizio di Dio”, “decidere cos’è giusto”, “sottoporre alla prova del fuoco”, “colpire e venerare senza riserve”, “trasformarsi in strumento politico”, non sono espressioni che userei per “la Rete”, ma per un’altra più antica e potente istituzione dell’informazione, che evidentemente oggi – in alcuni suoi rappresentanti – si sente derubata di queste prerogative: ma non lo faccio perché non generalizzo, nel 2015, e penso che ognuno sia responsabile soltanto di sé.
E spero che capisca.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).