Una conchiglia più bella del solito

Insomma, la scienza ha un metodo: anzi, si potrebbe dire che la scienza è un metodo. Un metodo che usa l’esperimento e l’osservazione per mettere alla prova ipotesi e affermazioni sulla realtà, ipotesi e affermazioni che a loro volta devono essere formulate in modo da poter essere sottoposte al vaglio dell’esperimento. La scienza è una formidabile, efficacissima macchina per selezionare, tra tutti i pensieri che il nostro cervello può produrre a proposito del mondo, quelli che hanno la maggiore aderenza con la realtà. La risposta più semplice alla domanda “a che serve la scienza” è, quindi: la scienza serve a cercare la verità. Oppure, meno pomposamente, a capire come funziona il mondo.

Naturalmente, la voglia di capire il mondo viene da prima della scienza. Ce l’abbiamo dentro un po’ tutti, è stata la spinta che ha fatto nascere la filosofia, le religioni, l’arte. Insomma, è una voglia talmente connaturata al nostro essere umani che sarebbe difficile trovare qualcuno che non ne abbia dentro nemmeno un po’, o immaginare un’attività che non sia nata per assecondare almeno in parte quella voglia. È una cosa evidente nei bambini che attraversano la fase dei perché, fase che in moltissimi casi viene soffocata sul nascere per l’inadeguatezza di chi dovrebbe coltivarla. La scienza, appunto, è un sistema di pratiche efficacissime per assecondare questa curiosità.

Quindi, in un certo senso, si fa scienza non perché sia utile, ma perché, come esseri umani, non ne possiamo fare a meno. Per convincersene, basta leggere quello che scrivono i grandi scienziati. Che ce lo raccontino loro, perché hanno iniziato a fare scienza.

Keplero, per esempio. Nel Mysterium Cosmographicum, pubblicato nel 1596, si trova questa frase:

“Non ci chiediamo per quale utile scopo gli uccelli cantino: lo trovano piacevole, perché sono stati creati per cantare. Similmente, non dovremmo chiederci perché la mente umana si preoccupi di comprendere i segreti dell’universo; la diversità dei fenomeni naturali è così grande, e i tesori nascosti nel cielo così ricchi, proprio perché non venga mai a mancarle fresco nutrimento.”

Certo, bisogna sorvolare sulla vena creazionista (comprensibile, erano tempi diversi). Ma, se riuscite a passare oltre, ci sono due cose molto belle in questa citazione. La prima è che Keplero, per spiegare quanto la scienza sia parte della natura umana, la paragona a un’attività completamente inutile, artistica, diremmo: il canto degli uccelli. Cioè, la scienza è un’attività che si fa innanzitutto per piacere, senza uno scopo immediato. La seconda cosa bella è che, per descrivere la curiosità che muove lo scienziato, Keplero la paragona a un appetito. Mi piace perché Keplero sembra aver intuito una cosa che ho trovato nel libro La libertà ritrovata di Frank Schirrmacher. La cosa è questa: negli ultimi anni, si è capito che i meccanismi che l’uomo ha sviluppato per andare a caccia di informazioni (in particolare sulla rete) sono gli stessi che adotta per cercare fonti di cibo. Siamo una specie vorace di informazioni. Se non capiamo quello che abbiamo intorno, muoriamo. (E, simmetricamente, se non abbiamo un metodo per separare le informazioni buone da quelle cattive — un metodo scientifico —, andiamo incontro al disordine, alla bulimia cognitiva, ci ammaliamo di troppa informazione.)

La seconda citazione è di Newton, è famosissima. Sentite qua:

“Non so come potrò apparire al mondo, ma a me sembra di essere stato soltanto un bambino che, giocando sulla riva, si sia divertito a trovare ogni tanto una pietra più liscia o una conchiglia più bella del solito: intanto, il grande oceano della verità si spalancava ancora completamente inesplorato di fronte a me.

Quando era un giovane studente a Cambridge, Newton aveva comprato un grande quaderno — un oggetto di un certo valore, per quei tempi — e aveva preso a scriverci tutte le cose che capiva sul mondo. L’abitudine gli restò, e molte cose che usiamo ancora oggi facendo scienza — concetti come la massa o la forza o la quantità di moto, strumenti matematici come il calcolo infinitesimale — Newton dovette inventarsele per la prima volta, da solo, annotando ogni passo avanti nei suoi quaderni. Da vecchio, quando si descrisse con quella frase, Newton si vedeva ancora come uno che guardava il mondo con curiosità, interrogava la natura, trovava delle cose e le ordinava, le interpretava, cercava di capirle e di spiegarle. Guardate quali parole usa Newton: divertimento, bellezza, verità. L’idea che quello che stava facendo fosse anche utile non c’è da nessuna parte, lì dentro. Certo, si potrà dire che è una visione edulcorata: che Newton, mentre cercava le pietre lisce e le conchiglie sulla spiaggia, sotto sotto si dava all’alchimia, andando in cerca del segreto per trasformare i metalli in oro. Ma è un’obiezione debole. Quello lì è il modo in cui Newton voleva che il mondo lo ricordasse: e, spesso, l’abito con cui scegliamo di presentarci in pubblico dice molto su quello che siamo veramente.

Vabbe’, diranno gli scettici. Keplero, Newton, stiamo parlando dell’infanzia della scienza. Nel frattempo abbiamo scoperto i vaccini, inventato la bomba atomica, siamo stati sulla Luna. I punti di vista degli scienziati sul perché si fa scienza saranno cambiati.

È così? Ne parliamo la prossima volta.

Amedeo Balbi

Amedeo Balbi, astrofisico, è ricercatore all'Università di Roma Tor Vergata. Il suo (altro) blog è Keplero. I suoi libri su Amazon. Twitter: @amedeo_balbi