Google e Apple hanno molto bisogno l’una dell’altra

Le due società sono concorrenti nel mercato degli smartphone, ma gli accordi che regolano l'utilizzo predefinito del motore di ricerca sugli iPhone sono fondamentali per entrambe

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Lo scorso giovedì il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato le ultime argomentazioni a sostegno della sua posizione sulla presunta condotta anticoncorrenziale di Google nel mercato delle ricerche online. Il verdetto finale spetterà al giudice distrettuale del District of Columbia, Amit Mehta, che deciderà su quello che è stato definito «il caso di antitrust tecnologico più importante da quando il governo degli Stati Uniti citò in giudizio Microsoft alla fine degli anni ’90».

L’accusa del governo statunitense è che Google abbia mantenuto la sua posizione dominante nel mercato in modo illegittimo manipolando gli utenti affinché non utilizzassero prodotti alternativi, come Bing, il motore di ricerca di Microsoft. Quest’ultima ha recentemente dichiarato di aver investito «più di cento miliardi di dollari nello sviluppo di Bing» nell’arco di due decenni: nonostante questo sforzo – e la diffusione di Microsoft e dei suoi servizi – il mercato è rimasto saldamente in mano a Google, che ad aprile controllava il 90,91% delle ricerche online mentre a Bing rimaneva il 3,64%. Per quanto schiacciante, la quota di Google è in leggero calo rispetto a quella dell’aprile 2023, quando sfiorava il 93%.

Secondo il dipartimento della Giustizia e un gruppo di 38 stati e territori statunitensi, lo strapotere di Google è stato costruito – e mantenuto – soprattutto grazie ad accordi commerciali tra il motore di ricerca e aziende come Apple e Samsung, che hanno reso Google il motore di ricerca predefinito di buona parte degli smartphone in commercio. Accordi simili sono stati fatti negli Stati Uniti anche con operatori telefonici come T-Mobile. A tal proposito Google ha tentato di dimostrare che queste società hanno scelto Google come partner perché si trattava di un «prodotto superiore», ma secondo l’accusa lo strapotere è invece dovuto a pratiche anticoncorrenziali.

Al centro del caso c’è la cifra, pari a 20 miliardi di dollari, che Google paga annualmente ad Apple per essere il motore di ricerca di default di ogni iPhone e del browser Safari. Negli Stati Uniti peraltro la diffusione di iPhone è molto superiore rispetto all’Europa o all’Asia, raggiungendo circa il 60% del mercato degli smartphone. A questa somma vanno aggiunti 1,5 miliardi di dollari pagati a operatori telefonici e altri produttori di dispositivi, e più di 150 milioni di dollari ad altri browser. Ad esempio Firefox, browser sviluppato dalla società Mozilla, che dal 2005 viene pagata da Google per essere il motore di ricerca predefinito: secondo Bloomberg, queste somme annuali sono aumentate fino al 50% nell’arco degli ultimi dieci anni e in totale hanno raggiunto i 450 milioni di dollari (nel 2021 rappresentavano l’83% delle entrate di Mozilla).

Secondo il dipartimento di Giustizia, si tratta di cifre fuori mercato che praticamente nessuna azienda del settore – eccetto Google – può permettersi di spendere e che le hanno permesso di mantenere, negli ultimi vent’anni, una posizione dominante. Google ha potuto così schiacciare la concorrenza non solo dei servizi indipendenti o sviluppati da startup, ma anche di Microsoft.

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Nel corso del processo l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, ha detto che ha cercato di rendere Bing il motore di ricerca predefinito dei dispositivi Apple da quando è diventato CEO di Microsoft, nel 2014, e di essere stato disposto a «perdere 15 miliardi di dollari all’anno» e addirittura nascondere il logo di Bing dalla barra di ricerca per riuscirci. Lo stesso Nadella ha inoltre ammesso che Bing è «peggio di Google» proprio a causa della posizione dominante di quest’ultimo: a Bing mancano infatti i dati e la mole di utenti necessari ad affinare il prodotto.

Secondo la testimonianza di John Giannandrea, ex dipendente di Google oggi a capo della divisione AI di Apple, in passato Apple aveva preso in considerazione l’idea di sviluppare un proprio motore di ricerca o anche di comprare Bing da Microsoft, ma ha sempre rinunciato per timore di entrare in competizione con Google e perdere l’accordo miliardario. Le informazioni rivelate nel corso del procedimento hanno portato alla luce la complessa relazione che lega Google e Apple, due società che, nel settore degli smartphone, sono in aperta concorrenza.

Nonostante Apple critichi da tempo Android, il sistema operativo mobile di Google, per il tracciamento dei suoi utenti a fini pubblicitari, le somme versate annualmente dalla stessa Google sono diventate sempre più importanti per Apple, specie da quando le vendite di iPhone hanno cominciato a diminuire.

Per questo, l’azienda punta sempre di più sul settore dei “servizi”, che comprende la vendita di abbonamenti, come Apple Music e Apple TV+, ma anche le entrate pubblicitarie, che risultano in forte crescita per un motivo sempre riconducibile a Google. I 20 miliardi di dollari annui che l’azienda versa ad Apple vengono infatti contati in questo campo e rappresentano il 20% delle entrate totali del settore “servizi”. Le entrate pubblicitarie effettive di Apple, quelle legate alla vendita di annunci sull’App Store, ad esempio, sono solo il 6% del totale.

Google ha provato a minimizzare le accuse ricordando che qualsiasi utente può cambiare il motore di ricerca in «un paio di click». Nel corso del processo un esperto di economia comportamentale ha però sostenuto che Google scoraggi abitualmente questi cambiamenti e ha dimostrato che, in un caso, servivano fino a dieci passaggi per cambiare motore di ricerca da Google a Bing. Lo stesso Nadella ha definito «una bugia» l’idea che la possibilità di cambiare motore di ricerca rappresenti una vera alternativa per gli utenti: «Le impostazioni di default sono l’unica cosa che importa», ha detto.

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Un’ulteriore conferma dell’importanza delle impostazioni di default viene dall’Unione europea, dove lo scorso marzo è entrato in vigore il Digital Markets Act, il nuovo regolamento per le aziende del settore digitale per tutelare la concorrenza. I suoi effetti si vedono soprattutto sul mercato dei browser perché la nuove regole impongono che gli utenti possano scegliere quali prodotti usare per navigare online, scegliendoli da una schermata iniziale, dove Google Chrome e Safari compaiono insieme ad alternative meno note. Secondo Reuters, i risultati sono evidenti: un browser relativamente poco conosciuto, Aloha Browser, ha aumentato i suoi utenti del 250% nell’Unione europea nel mese di marzo, e anche altri prodotti indipendenti, come Vivaldi ed Ecosia, hanno registrato aumenti simili.