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  • Giovedì 28 settembre 2017

10 falsi miti sull’indipendentismo catalano

Il País – che è contrario all'indipendenza – ha smontato alcuni dei più diffusi slogan a sostegno del referendum che si dovrebbe tenere domenica

Poster a favore del referendum sull'indipendenza della Catalogna a Barcellona (David Ramos/Getty Images)
Poster a favore del referendum sull'indipendenza della Catalogna a Barcellona (David Ramos/Getty Images)

Il País ha elencato e smentito 10 falsi miti sul referendum per l’indipendenza della Catalogna che dovrebbe tenersi domenica 1 ottobre: per esempio che la Spagna rubi i soldi dei catalani, i quali sarebbero più ricchi stando da soli, oppure che la Catalogna indipendente entrerà automaticamente nell’Unione Europea. Il País – che finora ha preso una posizione nettamente contraria al referendum, e vale la pena tenerlo a mente – ha selezionato questi falsi miti dagli slogan e dalla retorica politica usati dai leader indipendentisti catalani negli ultimi anni: alcuni si possono considerare falsi miti non perché c’è la certezza che non si realizzeranno mai, ma perché non c’è certezza che si realizzeranno, come invece sostengono i favorevoli all’indipendenza. Inoltre, questi non sono naturalmente gli unici argomenti dei favorevoli all’indipendenza della Catalogna.

1. La guerra del 1714 fu una guerra di secessione
Gli indipendentisti sostengono che la guerra di successione spagnola che fu combattuta all’inizio del Diciottesimo secolo fu in realtà una guerra di secessione della Catalogna dalla Spagna. Secondo questa interpretazione, la sconfitta dell’esercito catalano segnò la fine delle istituzioni autonome della Catalogna sperimentate durante l’Impero Carolingio e l’inizio di un periodo di sottomissione al potere spagnolo. Le cose però non andarono così, ha scritto il País.

Nel 1700, alla morte di Carlo II, che era senza un diretto discendente, iniziò una guerra per la corona di Spagna: si scontrarono Filippo V di Borbone (nipote del re Luigi XIV di Francia) e l’arciduca Carlo VI d’Asburgo. Fu una guerra europea che divenne anche una guerra civile: il regno di Castiglia appoggiava i Borbone, mentre il principato di Catalogna stava dalla parte degli Asburgo. Vinsero i Borbone e la Coronela, l’esercito catalano, fu sconfitto. «Non fu una guerra di una nazione contro l’altra, né d’indipendenza, né di secessione, né patriottica», ha scritto il País, «e le vecchie leggi e antiche Costituzioni catalane furono usate da entrambe le parti come pretesti, slogan, esche e alibi». Fu una guerra tra due case regnanti per ottenere il potere, e basta.

2. La Costituzione del 1978 è ostile ai catalani
Gli indipendentisti catalani sostengono che sia necessario superare la Costituzione del 1978, ovvero la Costituzione adottata in Spagna dopo la fine del periodo storico conosciuto come franchismo, perché sarebbe a loro ostile; inoltre vorrebbero cambiarla tramite una decisione appoggiata dal Parlamento catalano, dove i partiti indipendentisti (Junts pel Sí e CUP) hanno la maggioranza dalle elezioni del 2015.

Il País sostiene che ci siano diverse cose sbagliate e false riguardo a questo punto. Anzitutto ci sarebbe un problema di rappresentatività nel modo tramite il quale gli indipendentisti vorrebbero modificare la Costituzione: gli indipendentisti nell’attuale Parlamento catalano sono stati votati da 1,9 milioni di persone, pari al 47,7 per cento del totale dei votanti; la Costituzione del 1978 fu appoggiata da 2,7 milioni di catalani, pari al 91,09 per cento dei votanti. La Catalogna fu, insieme all’Andalucía, la comunità autonoma spagnola ad appoggiare con la maggioranza più ampia la Costituzione, alla cui scrittura parteciparono tra l’altro catalani molto importanti. Secondo il País, inoltre, il testo votato non si può considerare in nessun modo quello di uno “stato ostile” ai catalani, ma tipico di uno stato profondamente decentralizzato.

3. La Autonomia ha fallito
Gli indipendentisti sostengono che i quasi 40 anni di autogoverno – ovvero la decentralizzazione del potere disegnata con la Costituzione del 1978 – siano stati un fallimento; dicono che oggigiorno sarebbe in corso un nuovo processo di centralizzazione del potere, e che quindi l’autonomia debba essere trasformata in indipendenza.

Il País sostiene che non sia corretto parlare di fallimento. Nel 1979, un anno dopo l’adozione della Costituzione, fu adottato un nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna che tra le altre cose stabilì «un sistema di autogoverno senza precedenti nella storia della Spagna»: fu recuperata la lingua catalana, il cui uso era stato vietato durante il franchismo, si fecero passi avanti sulla corresponsabilità fiscale e si ridistribuirono le competenze tra stato e comunità autonoma. Nel 2006 fu approvato un nuovo Statuto di Autonomia, che dava ulteriori poteri alla Catalogna, anche se poi molte sue parti furono dichiarate incostituzionali dal Tribunale costituzionale spagnolo con una sentenza molto contestata. Il País sostiene che nonostante quella sentenza, e nonostante le diverse leggi centralizzatrici introdotte dal Partito Popolare del primo ministro Mariano Rajoy dal 2012 a oggi, il grande livello di autogoverno delle comunità autonome spagnole sia una cosa ormai consolidata: migliorabile, ma comunque notevole se comparato con altri stati del mondo.

4. La Spagna è uno stato autoritario
Gli indipendentisti hanno accusato in diverse occasioni il governo spagnolo di comportarsi in modo autoritario: l’ultima volta è successo meno di una settimana fa, dopo le perquisizioni e gli arresti effettuati dalla Guardia civile spagnola negli edifici del governo catalano a Barcellona, accusato di continuare a organizzare il referendum sull’indipendenza nonostante fosse stato definito illegale dal Tribunale costituzionale spagnolo. L’account Twitter del governo catalano aveva scritto cose tipo: «I cittadini sono convocati per l’1 ottobre per difendere la democrazia da un regime repressivo e intimidatorio»; oppure: «Pensiamo che il governo spagnolo abbia oltrepassato la linea rossa che lo separava dai regimi autoritari e repressivi».

Come scrive il País, non c’è ragione di pensare che la Spagna non sia uno stato democratico. In Spagna esistono lo stato di diritto e la separazione dei poteri; il paese fa parte di tutte le convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e le libertà politiche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea; Freedom House ha dato un punteggio di 95/100 al rispetto dei diritti civili e politici in Spagna, lo stesso dato attribuito alla Germania. Né il governo catalano né uno dei gruppi indipendentisti della regione hanno mai fatto ricorso a tribunali internazionali per denunciare delle violazioni dei diritti, né tantomeno lo stato spagnolo è mai stato condannato per questo tipo di violazioni.

5. La Spagna ci ruba i soldi
L’idea che la Spagna “ruba” i soldi della Catalogna, sostanzialmente ridando indietro molti meno soldi di quelli che riceve, risale al 2012, quando fu diffusa dal governo dell’indipendentista Artur Mas. Allora si disse che la Catalogna contribuiva con 16,4 miliardi di euro al bilancio della Spagna, cioè l’8,4 per cento del PIL catalano: troppo, sostenevano gli indipendentisti.

In realtà i numeri diffusi dal governo catalano, scrive il País, si sono poi dimostrati più bassi, soprattutto dopo la crisi economica: non così lontani dalle percentuali trasferite in media da altri territori prosperi verso i governi centrali a capo dei loro stati federali, e nemmeno così lontano dalle stesse proposte catalane. In alcuni periodi storici il contributo della Catalogna al PIL spagnolo è stato anche più basso di quello di altre regioni della Spagna: per esempio, secondo i dati ufficiali diffusi dal governo spagnolo, nel 2014 la Catalogna è stata la seconda comunità autonoma contribuente netta (con il 5 per cento del suo PIL) dietro a Madrid (9,8 per cento). C’è anche da tenere conto che calcolare con precisione quanto torni indietro indirettamente a una regione che ha versato un contributo allo Stato è molto difficile: questo perché per esempio le tasse catalane finanziano il governo centrale, i ministeri e il Parlamento che legiferano anche per la Catalogna, oltre che l’esercito che protegge l’intero paese. Quantificare questa somma di denaro non è per niente facile.

6. Da soli saremo più ricchi
Gli indipendentisti catalani sostengono che da soli, quindi staccati dalla Spagna, sarebbero più ricchi. Già oggi la Catalogna è una delle comunità autonome più ricche del paese, insieme a Madrid, Paesi Baschi e Baleari, e ha un PIL pro-capite simile a quello di alcune tra le regioni più avanzate d’Europa. Una Catalogna indipendente aumenterebbe il suo PIL e migliorerebbe i suoi servizi pensionistici e sociali, sostengono gli indipendentisti.

Il problema, scrive il País, è che questa interpretazione minimizza i costi che deriverebbero dall’indipendenza: «la perdita delle sinergie economiche e degli stimoli intellettuali ottenuti dal fatto di appartenere all’ampio spazio economico europeo» sono difficilmente quantificabili, ma dovrebbero essere presi in considerazione. Il ministero dell’Economia spagnolo ha stimato che l’eventuale secessione ridurrebbe il PIL catalano di una cifra compresa tra il 25 e il 30 per cento rispetto a quello attuale; uno studio del ministero degli Esteri, meno catastrofico, parla di un calo del 19 per cento del PIL. Non è comunque possibile dire cose certe su questo tema.

7. Abbiamo diritto a separarci
Nella “Ley del referéndum de autodeterminación vinculante sobre la independencia de Cataluña”, cioè la legge approvata il 6 settembre dal Parlamento catalano che regola il referendum, c’è scritto che la Catalogna ha il «diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione», in senso «favorevole all’indipendenza». Non è proprio così.

È vero che il diritto internazionale riconosce il principio di autodeterminazione dei popoli, ma non inteso come diritto alla secessione, quanto piuttosto diritto del popolo, o di una parte di esso, a essere cittadino e potersi realizzare politicamente, a partecipare alla vita democratica delle istituzioni del proprio paese. Il diritto alla secessione viene riconosciuto solo in alcuni specifici casi, per esempio dove c’è un dominio coloniale, un’occupazione militare di una forza straniera e dove vengono compiute gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Nel resto dei casi il diritto internazionale fa prevalere la “garanzia del confine”, ovvero l’integrità territoriale dello stato, sulle esigenze di autodeterminazione.

La Costituzione spagnola non prevede il diritto alla secessione e un cambiamento dello status quo richiederebbe una riforma costituzionale con procedimento aggravato, quindi con una maggioranza rafforzata, proprio come in Italia. Ci sarebbe anche la possibilità di organizzare direttamente un referendum, ma il voto dovrebbe essere organizzato dal governo spagnolo e il risultato non sarebbe comunque vincolante (si parlerebbe di un referendum consultivo).

8. Non usciremo dall’Unione Europea
Gli indipendentisti sostengono che la Catalogna sicuramente non uscirà dall’Unione Europea, una volta raggiunta l’indipendenza, ma non è una cosa certa o automatica.

Come ha scritto il País, dal 2004 a oggi tutti i presidenti della Commissione europea – Romano Prodi, Jose Manuel Barroso e Jean-Claude Juncker – hanno sostenuto il contrario: se un territorio di uno stato membro smette di esserne parte, perché diventa indipendente, i trattati dell’Unione Europea non potranno continuare ad essere applicati automaticamente a questa parte di territorio. Se vorrà diventare membro dell’Unione Europea, il nuovo stato dovrà fare formale richiesta, secondo quanto prevede l’articolo 49 del Trattato sull’Unione Europea: significa che la sua candidatura dovrà essere accettata da tutti gli attuali stati membri, quindi anche dalla Spagna, che però potrebbe non essere d’accordo in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna.

C’è poi un’altra questione. Per come è fatto oggi il sistema internazionale, uno stato per essere tale deve avere un ampio riconoscimento internazionale (un’entità può definirsi stato in maniera unilaterale, ma se non viene riconosciuto dagli altri non può avviare relazioni diplomatiche, non può entrare a far parte di grandi trattati internazionali, e così via). Come disse lo scorso 25 marzo Artur Mas, ex presidente catalano, «se non ti riconosce nessuno, le indipendenze sono un disastro». Un passaggio fondamentale per ottenere questo riconoscimento è l’ONU. Per ammettere un nuovo stato nell’ONU, questo deve essere raccomandato dal Consiglio di Sicurezza, dove ci sono cinque stati con poteri di veto tra cui la Francia, che non sembra troppo incline a favorire spinte separatiste in un altro paese europeo. La candidatura deve poi essere approvata dai due terzi dell’Assemblea generale, organo che rappresenta tutti gli stati membri dell’ONU. È difficile dire come potrebbe finire tutto questo, visto che ci sono altri stati europei che sono soggetti a spinte indipendentiste e che probabilmente si opporrebbero a un riconoscimento della Catalogna indipendente, per non alimentare gli autonomismi o indipendentismi locali.

9. Il referendum dell’1 ottobre è legale
Il governo catalano sostiene che il referendum dell’1 ottobre sia legale e il vicepresidente catalano Oriol Junqueras ha aggiunto che non è contrario al Codice penale. Ma non è vero, dice il País. La Costituzione affida la competenza esclusiva di indire un referendum di particolare importanza al Parlamento e al governo spagnoli, mentre il referendum dell’1 ottobre è stato convocato unilateralmente dal governo catalano.

Il País aggiunge anche un’altra cosa: sostiene che le due leggi approvate dal Parlamento catalano per realizzare il referendum – quella del 6 settembre e un’altra dell’8 settembre – siano illegali, anzitutto per questioni procedurali: sono state votate dal Parlamento catalano senza la maggioranza dei due terzi richiesta per la modifica dello Statuto di Autonomia della Catalogna, e senza avere ottenuto il parere preventivo del Consell de Garanties Estatutàries, il tribunale costituzionale della Catalogna, l’organo che controlla la legalità delle leggi approvate dalla comunità autonoma. La Ley del referéndum sarebbe illegale anche per il suo contenuto: una legge ordinaria non può infatti autoproclamare che «prevale gerarchicamente» sullo Statuto di Autonomia e sulla Costituzione, e non può stabilire un’autorità elettorale con la sola maggioranza assoluta.

10. Votare è sempre democratico
Uno degli slogan usati nella campagna degli indipendentisti è: «Referendum è democrazia», ma non esiste alcun automatismo che leghi questi due concetti.

Il referendum è stato ampiamente usato in passato dai regimi autoritari, tra cui quello di Franco in Spagna, che nel dicembre 1966 ne fece ricorso per approvare l’allora nuova Costituzione. Inoltre nel programma elettorale di Junts pel Sí, la coalizione al governo in Catalogna, non si parlava di referendum per l’indipendenza: non ci sarebbe nemmeno un mandato elettorale su cui fare leva. Affinché un referendum sia democratico, scrive il País, deve tenersi in un paese democratico rispettando le norme costituzionali di quello stato: una cosa che non sta avvenendo con il referendum sull’indipendenza catalana.