Limitare la pubblicazione delle intercettazioni non è nessun bavaglio

Lo spiega il magistrato Guido Salvini in una lettera al Foglio: "I danni dell’attuale pubblicazione selvaggia sono tanti"

Una manifestazione contro il DDL intercettazioni, la legge proposta nel 2008 dal governo Berlusconi e rinominata dai suoi critici "legge bavaglio".
(ANSA/ MARIO DE RENZIS)
Una manifestazione contro il DDL intercettazioni, la legge proposta nel 2008 dal governo Berlusconi e rinominata dai suoi critici "legge bavaglio". (ANSA/ MARIO DE RENZIS)

Da qualche giorno il quotidiano il Foglio è tornato a polemizzare contro gli abusi legali e gli eccessi giornalistici compiuti diffondendo e pubblicando con grande frequenza i testi di intercettazioni telefoniche contenute in indagini che dovrebbero essere riservate: il Foglio ha proposto che la loro pubblicazione sia impedita fino a che le inchieste non siano concluse. Mercoledì la proposta aveva raccolto il sostegno della scienziata Ilaria Capua, che era stata vittima di un’accusa infondata molto esaltata da alcuni giornali. Giovedì a condividerla è un magistrato piuttosto noto, Guido Salvini, famoso soprattutto per aver condotto le ultime indagini sulla strage di Piazza Fontana a Milano.

Aderisco all’invito rivolto dal Foglio al mondo della stampa a non pubblicare più le intercettazioni, soprattutto quelle trafugate da un’indagine in corso. Sarò l’unico magistrato, credo, a farlo ma non me ne preoccupo. Resto da sempre contrario ad ogni riduzione della possibilità di disporre intercettazioni ma sono convinto che limitarne la pubblicazione, anche in modo drastico, non sia un bavaglio.
Ho avuto modo di scrivere più volte che un giornalismo serio non dovrebbe pubblicare all’istante intercettazioni che riceve, regola di etica e di correttezza da estendersi alle informazioni di garanzia. I brani di una conversazione, che nessuno ascolta mai in diretta nei toni e nelle pause, sono un materiale grezzo e scivoloso dove abbondano ambiguità, millanterie, enfasi, emozioni, approssimazioni, gerghi e codici di comportamento tra gli interlocutori che le rendono aperte a più interpretazioni, non solo quella confezionata, anche in buona fede, da un investigatore. Avevo scritto che queste parole informi non dovrebbero finire sui giornali almeno sino a quando l’indagato e le persone comunque coinvolte non abbiano almeno avuto modo di difendersi spiegando al magistrato, in un interrogatorio e dopo averle ascoltate, il significato di quanto stavano dicendo.

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